Ehi…
Ciao, perché parli così piano?
Ho sentito che è uscito un nuovo A Quiet Place…
Sì, è anche molto bello. Ne vuoi sapere di più?
Non è la serie horror con i mostri che ti uccidono se fai rumore?
Sì. Oddio, dipende. Diciamo che ti uccidono se ti sentono e ti sentono (o non ti sentono) a seconda delle necessità della storia.
Quindi, non ho niente da temere?
No. Non per il momento, almeno.
Meno male. Allora, raccontami tutto!
Dunque, la serie di A Quiet Place nasce nel 2018 da un film scritto da Scott Beck, Bryan Woods e John Krasinski. Quest’ultimo lo ha anche diretto e interpretato, assieme a sua moglie Emily Blunt. La storia racconta dell’invasione di una specie di cavallette aliene che hanno una particolarità: sono del tutto cieche e si affidano esclusivamente all’udito per trovare le loro prede (non hanno neanche un senso radar come i pipistrelli). Nonostante questa evidente disabilità (a cui va aggiunto il fatto che non sanno nuotare), questi mostri sono così veloci, cattivi e violenti che, in brevissimo tempo, sterminano la quasi totalità della razza umana e fanno sprofondare la nostra civiltà in un mondo rurale e post-apocalittico, dove i pochi superstiti cercano di sopravvivere non facendo mai alcun rumore.
Non sembra tanto probabile…
Diciamo che l’impianto narrativo che sta alla base, le premesse di tutta la storia e le caratteristiche dei mostroni, non sono il punto più forte del franchise nel suo complesso che però brilla per molti altri aspetti.
Quali?
Aspetta, stai andando troppo in fretta, torniamo all’inizio di tutto, nel 2013.
Aspetta, il primo film non è del 2018?
Sì, ma il videogioco di The Last of Us esce nel 2013…
E che c’entra?
Più o meno tutto, secondo me. Io, infatti, credo che Scott Beck e Bryan Woods, i due sceneggiatori del film, abbiano giocato parecchio al primo capitolo del videogioco di Naughty Dog e se ne siano lasciati ampiamente ispirare nel concepimento della loro storia, anche se non lo hanno mai detto o citato esplicitamente. Anzi, hanno più volte rimarcato come l’idea del film gli venne durante gli anni del college (cinque anni prima, appunto, quando stavano nella loro cameretta a giocare al gioco creato da Neil Druckmann) e che, inizialmente, il film avrebbe dovuto far parte del confuso universo narrativo di Cloverfield.
Perché ne sei così convinto?
Perché i punti di contatto sono troppi e troppo evidenti. E non parlo solo dell’ambientazione rurale e post-apocalittica (quella è figlia sempre di Cormac McCarthy e del suo romanzo La strada, che è stato fonte di ispirazione anche per The Last of Us e per mille altre opere), quanto proprio per il meccanismo narrativo alla base di tutto.
Che intendi?
Vedi, in The Last of Us ci sono vari tipi di mostri che hanno caratteristiche diverse. Tra di loro, i “Clicker”, delle bestiacce umanoidi dalla testa di cavolfiore, violentissime e cieche, che braccano il giocatore solo seguendone il rumore. Per sopravvivere, bisogna evitare a ogni costo di fare rumore perché se ti sentono, i Clicker ti corrono incontro correndo come invasati e sono quasi invincibili nello scontro diretto. Proprio come i mostri di A Quiet Place. E proprio come i mostri di A Quiet Place, i Clicker fanno uno strano verso (una serie di “click” da cui deriva il loro nome) quando si muovono ciechi e circospetti, in attesa di sentire qualche suono che riveli la presenza di una preda.
Tutto qui?
Ci sarebbe anche il fatto che John Krasinski, nel primo film, è conciato esattamente come Joel Miller (il protagonista di The Last of Us) e che la storia di entrambe le opere non ruota mai sull’obiettivo di sconfiggere i mostri-alieni (che, anzi, appaiono sempre come invincibili) e salvare l’umanità, quanto, piuttosto, sulla semplice sopravvivenza di un piccolo gruppo di personaggi che è sempre un qualche tipo di famiglia (più o meno allargata).
In realtà, però, che la serie di A Quiet Place abbia o meno un debito con The Last of Us non è poi una cosa così importante perché l’universo narrativo concepito da Beck, Woods e Krasinski ha tre punti forti che gli conferiscono una sua identità distintiva. Ed è proprio quell’identità che ne ha decretato il successo.
E quali sarebbero questi tre punti forti?
Il primo è che i mostri alieni, la loro origine, le loro ben poco coerenti capacità, non contano molto. Sono un mero espediente, un meccanismo narrativo che, nella sua estrema semplicità, funziona molto bene: se fai rumore, muori. Tutto qui. E questo è un classico strumento tensivo del cinema da quando il cinema è nato. Quanti film abbiamo visto in cui c’è una sequenza in cui un protagonista è cacciato da un nemico più o meno mostruoso e si deve nascondere e non far rumore per non essere ucciso? Mille. Qui, semplicemente, quella sequenza è espansa non solo alla durata di un intero film ma a ben tre.
Il secondo punto di forza è che la serie è ben conscia dei suoi limiti e se ne tiene sempre abbastanza lontana. Se ci stai a pensare, ci sono tante cose che non tornano o che tornano poco nell’universo narrativo di A Quiet Place. Sul serio la nostra civiltà è finita nello scarico del water a causa di alienoni sì grossi e violenti, ma più ciechi di Mr. Magoo, sprovvisti di armi a distanza (o di modi per difendersi dagli attacchi a distanza) e che non sanno nuotare? Improbabile. È assolutamente problematica la maniera con cui funziona l’udito di queste creature, capaci di sentire il suono di una campanella da decine di metri di distanza ma di non avvertire il battito del cuore di qualcuno standogli a pochi centimetri di distanza. Potrei continuare a lungo sulle incoerenze e le insensatezze, ma non ha senso farlo perché, come dicevo, la serie ha l’intelligenza di tenere sempre sullo sfondo quei contesti o situazioni che le farebbero notare eccessivamente. E lo fa stando sempre sullo stretto, sul piccolo, sul non significativo. Gli altri film che parlano di invasioni aliene, di solito, si concentrano su come questa invasione è avvenuta, su cosa abbiamo fatto per resistergli in termini macroscopici e su cosa dovremmo fare per trionfare. A Quiet Place, no. In A Quiet Place l’invasione è un fatto accaduto e incontrovertibile e i problemi da affrontare per i protagonisti sono problemi privati. Sopravvivere al giorno dopo, per esempio, o come mettere alla luce e poi allevare un bambino in un mondo dove il pianto di un neonato potrebbe portarti a morte certa. Storie piccole, molto focalizzate in un momento specifico e rigidamente circoscritto in termini temporali, con la Storia con la “S” maiuscola che avviene sullo sfondo, non tanto importante per nessuno, a conti fatti.
Il terzo punto, che poi è l’elemento su cui Krasinski ha insistito particolarmente in fase di scrittura e che poi ha saputo rendere al meglio nella regia dei primi due film, è l’umanità dei personaggi protagonisti, gente normale, con desideri piccoli (sopravvivere e far sopravvivere le persone a cui vogliono bene), che fanno cose piccole e credibili. Gente in cui è facile immedesimarsi e a cui voler bene. Sono uomini, donne e bambini qualsiasi, che devono trovare la forza l’uno nell’altro per sopravvivere a un mondo che cerca di sopraffarli in ogni maniera.
E questo vale per tutti e tre i film?
Assolutamente, anche se Krasinski, nel terzo, si defila dalla regia (ma rafforza la sua posizione di sceneggiatore e produttore della serie), affidandola al bravissimo Michael Sarnoski di Pig (il bellissimo film con Nicolas Cage sulla cucina).
Devo vederli di fila, giusto?
In realtà, no. Ogni film ha la capacità di essere abbastanza autonomo (altro grosso merito della serie) con premesse narrative e sviluppi molto chiari. Poi, sì, se li vedi in fila, dal primo al terzo, te li godi di più, ma non è strettamente necessario. Per esempio, il collegamento tra il primo film e il secondo, sulla carta, sarebbe strettissimo (seguiamo gli stessi personaggi e la storia del secondo film è il diretto proseguo di quanto accaduto nel primo), ma è anche una storia che funziona perfettamente da sola, senza aver bisogno di nessuna spiegazione o riassunto. Il terzo poi, a parte per la presenza (marginalissima) di un paio di personaggi di contorno visti nel secondo capitolo, non ha nessun collegamento con gli altri due film. Anche perché, è ambientato prima (non a caso si intitola Day One).
Quindi, facciamo caso che non ho visto i primi due e che questa sera degli amici mi portano a vedere il terzo, capisco tutto?
Sì.
Ma non è il miglior film della serie, vero? Come dice Nolan, nessun terzo capitolo di una serie è un bel film (a parte Rocky III).
Dunque, premesso che nel caso di A Quiet Place il mio preferito è il secondo (per la sua estrema essenzialità narrativa, perché Emily Blunt e Cillian Murphy sono fantastici assieme e perché Krasinski lo dirige davvero, davvero, bene), devo dire che questa terza parte è almeno al livello della prima, grazie a un’idea molto semplice.
Che sarebbe?
Non è un film di disperati che cercano di sopravvivere ai mostri. Cioè, lo è, ma non è il vero cuore del film. La storia è quella di una donna malata terminale di cancro, di un tipo spaventato che la incontra per caso e di un gatto, che li lega…
E di come scappano dai mostri?
No, di come vanno in bocca ai mostri, per trovare un’ultima fetta di pizza.
Sei serio?
Serissimo e sai che c’è? Funziona benissimo e ha pienamente senso. E, soprattutto, se hai visto Pig dello stesso regista (che aveva lo spunto di un John Wick con un maiale al posto del cane, ma che poi si risolveva, invece, in un film sulla cucina, sul ricordo e su come ci facciamo male e bene come esseri umani), è perfettamente in linea con il suo approccio d’autore. A Quiet Place: Day One è un film dolente e commovente e umanissimo su due persone in un brutto momento della loro vita e di come, sostenendosi a vicenda, cercano di superarlo. I mostri, l’invasione, l’esercito che bombarda i ponti e i soliti altri sopravvissuti che fanno le solite cose che abbiamo visto in mille altre pellicole del genere, sono solo un fondale colorato che serve a Michael Sarnoski come cavallo di Troia per portare avanti il suo discorso sulle persone.
Ma quindi, non ci sono scene di tensione con inseguimenti e tutto il resto?
Sì, ci sono, ma potrebbero anche non esserci e il film funzionerebbe bene lo stesso e sarebbe ugualmente bello. Anche perché, oltre a essere ben scritto e ben diretto, ha nei due attori protagonisti un’arma in più: Joseph Quinn è un perfetto “Englishman in New York” per citare Sting, un tipo qualsiasi, logicamente terrorizzato, che permette a chiunque di identificarsi in lui, un perfetto contenitore per lo spettatore. Quanto a Lupita Nyong’o, sceglie A Quiet Place: Day One per regalarci un’interpretazione da Oscar che da sola vale il prezzo del biglietto.
Quindi, vado al cinema sereno?
Se ti piacciono i film profondi, con sentimenti maturi, una bella regia sobria e con almeno due scene che ti strapperanno il cuore, assolutamente sì.
E se cerco un film di mostri che mangiano la faccia alla gente?
Troverai pure quelli.