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Horizon: an American Saga (prima parte), una recensione a mente fredda e cuore caldo

Pubblicato il 08 luglio 2024 di Roberto Recchioni

Dunque.
Vorrei dirvi che la ragione per cui me la sono presa così comoda nello scrivere la recensione del nuovo film di Kevin Costner è che sono andato al mare a mangiare il pesce sul pontile.
Purtroppo, non è così. Ci ho messo tanto a decidermi a buttare giù queste righe perché dovevo chiarirmi le idee in testa su questo (mezzo) film western che è arrivato in sala ad un prezzo altissimo (sia per quanto è costato materialmente realizzarlo, sia perché è la causa dei dissidi tra Taylor Sheridan e Kevin Costner e il suo conseguente abbandono di Yellowstone).

Intanto, la storia in breve: Horizon racconta le vicende di un ampio gruppo di personaggi, sul finire degli anni cinquanta del diciannovesimo secolo, che per un motivo o per l’altro, iniziano a convergere tutti sulla sponda di un fiume nella San Pedro Valley tra l’Arizona e il Messico. Un pezzo di terra che è la gallina dalla uova d’oro per uno spietato speculatore che la vende come un eldorado a coloni inconsapevoli del fatto che l’appezzamento è, in realtà, il terreno di caccia prediletto di una tribù apache.
I personaggi protagonisti sono molti e di estrazione molto diversa. Andiamo dal vecchio pistolero dal passato burrascoso (interpretato da Costner stesso) alla giovane prostituta (Abbey Lee), dal giovane soldato in giacca blu (Sam Worthington) al suo sergente (Michael Rooker), dalla vedova con prole (Siena Miller) alla giovane dama (Juliette Chesney), dal giovane guerriero apache (Owen Crowshoe) alla guida della carovana (Luke Wilson), dallo psicotico assassino (Jamie Campbell Bower) al di lui fratello altrettanto psicopatico e assassino (Jon Beavers). E questo solo per citare i ruoli maggiori (neanche tutti). Le trame di ognuno partono da momenti e luoghi diversi e, lentamente iniziano a convergere tutte nella stessa direzione, che è Horizon appunto, cioè la frontiera, cioè un futuro migliore, cioè, lo splendido sogno americano costruito su fondamenta di sangue, violenza e soprusi.
E fin qui, tutto chiaro e semplice.

Veniamo alla parte più spinosa.
Horizon è un film di tre ore che rappresenta solamente la prima parte (di quattro previste da Costner) di una lunga saga che si pone l’obiettivo di raccontate la storia dei suoi personaggi in un arco di tempo di vent’anni e, attraverso di loro, raccontare di come il west sia stato vinto (per citare un western epico del 1962, diretto da Henry Hathaway) e, ancora, di come gli Stati Uniti siano stati davvero fondati.
Ora, c’è qualcosa di particolarmente anomalo in questo? Non tanto.
Per dire, La compagnia dell’anello di Peter Jackson era un film di tre ore, primo di una trilogia, e pieno di personaggi al pari di Horizon. Ma allora perché il film di Costner è stato accolto sin dall’annuncio come fosse una follia?
Intanto, perché con la trilogia de Il signore degli anelli, era stata data la certezza che la saga sarebbe stata completata, indipendentemente dai risultati al botteghino. Era un progetto economico solido e sicuro. Horizon, no. Horizon è il sogno di un autore testardo e poco incline ai compromessi, che per realizzarlo si sta giocando tutto tra carriera e soldi personali (tanti) messi sul progetto. È una quadrilogia che forse verrà completata ma forse, se le cose si dovessero mettere davvero male (e bene non stanno andando), no, perché il primo e il secondo film sono fatti, ma il terzo e il quarto, chissà.
E già questo crea un senso di spiacevole incertezza nel pubblico.
La seconda causa di diffidenza è Costner stesso. Rapida sintesi: negli anni novanta era il divo più amato d’america, il nuovo Gary Cooper. Poi ha esordito alla regia e si è scoperto essere un regista straordinario. Poi la sua visione autoriale si è scontrata con il mercato e mentre lui proponeva pellicole sempre più ambiziose e “larger than life” (ma, del resto, quando esordisci con il pluripremiato e amatissimo Balla coi lupi, non è che poi puoi metterti a girare film nel tinello di casa tua), la gente si è dimostrata sempre meno interessata alla sua visione e dopo tre flop via, via più rumorosi, (Wyatt Earp, Waterworld e L’uomo del giorno dopo, tutti e tre buoni film, se lo chiedete al sottoscritto), Hollywood ne ha avuto abbastanza di lui, delle sue ambizioni e delle sue continue bizze d’artista, e lo ha costretto prima a realizzare film piccoli (lo splendido Open Range) che comunque non hanno trovato il successo al botteghino, poi a tornare a fare solamente l’attore in produzioni di serie B e, infine, lo ha relegato nel mondo delle celebrità in disgrazia, costrette a fare pubblicità in mercati secondari (ricordate gli spot per Valleverde e quelli per il tonno Rio Mare? Io, purtroppo, sì). A un certo punto, Costner sembrava una pratica chiusa. L’ennesimo Icaro hollywoodiano che era volato troppo vicino al sole. Poi è arrivato Taylor Sheridan che si è ricordato di quel decaduto eroe americano e gli ha offerto la parte della vita: John Dutton, lo spietato patriarca di Yellowstone. La serie televisiva, in USA, si è rivelata un successo enorme (anche per merito di Costner) e gli spettatori si sono ricordati di colpo di quanto amassero l’uomo dei sogni. Kevin è tornato sulla breccia e… è tornato a fare Kevin Costner. Nuove bizze sul set, nuovi casini personali e, ovviamente, nuovi progetti ambiziosissimi, in barba al mercato. Per realizzare Horizon l’attore e regista non solo ha compromesso la sua partecipazione alla serie che lo aveva rilanciato (inimicandosi un re mida televisivo come Taylor Sheridan), ma ha pure investito parecchi milioni del suo patrimonio personale. E se c’è una cosa che Hollywood non ama proprio, sono quei registi che ci mettono soldi propri, dimostrando di poter fare a meno di loro (guardate anche lo scetticismo con cui è stato accolto Megalopolis, l’ultimo film di Coppola).
Infine, per chiudere il cerchio del: “rendiamoci le cose più difficili di quanto sono”, c’è il fatto che Horizon è un western. Un western classico, senza compromessi alla modernità. E i western, specie quelli classici, al cinema non fanno soldi da un pezzo.

Ok, ma in tutto questo, il film com’è?
E qui veniamo alla mia difficoltà nello scrivere questo pezzo.
Provo a riassumere se andate di fretta: per quello che ho visto, è meraviglioso.
Ma quello che ho visto, non è abbastanza.
E dire “non è abbastanza” dopo tre ore di pellicola, è un problema, non giriamoci attorno.
Nel concepire Horizon, Costner deve aver ripensato a uno dei primi grandi successi a cui ha preso parte (come attore), Silverado (del 1985, scritto e diretto da quel genio di Lawrence Kasdan). Silverado è un film western uscito in un periodo in cui il genere veniva ritenuto morto più di adesso e concepito da Kasdan in maniera molto ingegnosa, portando a schermo un’ampia pletora di personaggi e topoi narrativi che finivano per rappresentare una sorta di compendio del genere stesso. Un film manifesto per ricordare al pubblico più anziano perché i western fossero stati così tanto amati negli anni passati e per introdurlo a una nuova generazione. Non funzionò ma Silverado resta comunque un gran bel film.
Costner deve aver pensato: “faccio la stessa cosa ma su uno scenario più ampio e con ambizioni maggiori”.

E qui arriva il problema. Perché Silverado aveva, tra i suoi molteplici meriti, anche una certa essenzialità. Horizon, l’essenzialità, non sa neanche dove sia di casa. Tutti i personaggi sono presi in un momento lontano da quello che sarà il loro fuoco narrativo e questa prima parte a stento li mette sulla strada giusta per arrivarci. Per carità, lo fa molto bene, costruendo una pletora di caratteri tutti interessanti e significativi che, assieme e contrapposti, chiariscono sin da subito quello che Costner vuole dire con il film e sul mito fondativo americano (illustrandocene le origini, la complessità, le contraddizioni, le ipocrisie e i meriti) ma forse non era proprio necessario risalire alle calende greche, per farlo. Forse avremmo potuto trovate gli stessi personaggi un poco più avanti nella storia, già tutti impegnati a percorrere la pista per il west e un pelo più interconnessi tra loro. Invece, forse influenzato dalla narrazione televisiva che va per la maggiore, Costner sceglie un approccio narrativa davvero larghissimo, quasi alla Game of Thrones, dove ogni personaggio è preso quasi all’origine della sua vicenda personale, lontanissimo e scollegato dagli altri.
La promessa è ovvia: prima della fine, tutti questi vettori narrativi convergeranno nello stesso punto (la futura cittadina di Horizon) e le loro storie si intrecceranno l’una con l’altra, per risolversi in qualche maniera, ma in questa prima parte non succede. Questa prima parte è un setting narrativo, di grande fascino, senza alcun dubbio, che quando sembra finalmente iniziare, finisce.
Non sarebbe un problema così enorme se, come spettatori, avessimo la certezza assoluta che la storia sarà raccontata dall’inizio alla fine ma così non è, e questo è un problema. Anche serio.

Dall’altra parte però, c’è Horizon come pure oggetto filmico e qui, di dubbi non ce ne sono: è un capolavoro.
La regia di Costner è sempre splendida, elegante e distesa ma capace di grandi accelerazioni, classica senza mai essere obsoleta, epica senza essere retorica. L’occhio del regista è infinito come infiniti sono i cieli che racconta, in una rappresentazione della frontiera che trova eguali solo nel miglior cinema di John Ford.
Inoltre, l’attenzione posta su ogni dettaglio, dai costumi agli asset di scena, rivela una cura e un amore per il cinema, e il cinema western in particolare, senza eguali.
Chi parla di “una serie televisiva portata al cinema” non sa cosa dice perché, sotto il profilo squisitamente cinematografico e visivo, Horizon è un’opera impossibile da pensare su uno schermo casalingo, sia per i valori produttivi messi in campo sia perché, semplicemente, il film è troppo grande per stare in un salotto. E se proverete a mettercelo, aspettando che sia arrivato su qualche piattaforma per vederlo, lo ucciderete.
Questo film va visto in sala, sullo schermo più grande che riuscirete a trovare perché sono tre ore di un film che volano e non annoiano mai, un cinema di un livello altissimo, che non si fa più, ormai, del tutto fuori scala per intenzioni, ambizioni e sentimenti che sa suscitare, sostenuto oltretutto da un cast di attori straordinari che fanno a gara per essere i migliori sullo schermo, sia che siano in ruoli maggiori, sia che appaiano per pochi secondi sullo schermo.

Horizon è, senza ombra di dubbio, una lettera d’amore che Costner scrive a John Ford, a Howard Hawks, a Robert Aldrich, a Delmer Daves, a John Sturges, a Anthony Mann, a Clint Eastwood, a Sam Peckinpah, a Raoul Walsh, a Hollywood, al cinena, al west e ai western, all’America e, ovviamente, a sé stesso.
Una lettera d’amore bellissima di cui abbiamo, purtroppo, letto solamente le prime righe. E questo è il difetto fatale di tutta questa pazza operazione.
Vi prego, andate in sala.
Date dei soldi a Costner.
Voglio sapere come finisce questa storia.