La commedia romantica non è mai morta per davvero, e non solo perché Netflix la tiene in vita con produzioni di bassa lega. Come altri generi ormai trascurati (pensiamo al western e al melodramma), le rom-com sopravvivono tramite un processo di contaminazione, e tracce del loro linguaggio fanno ancora capolino nel cinema action, nei biopic o in certi colossal avventurosi, per citarne alcuni. Il caso di Fly Me to the Moon è significativo perché integra gli stessi codici in un contesto storico più ampio, volto a celebrare il trionfo statunitense sulla Luna; eppure, dietro la ricostruzione d’epoca, il film di Greg Berlanti resta pur sempre una commedia romantica, animata da quei topoi narrativi che il pubblico conosce bene.
In tal senso, non dobbiamo stupirci che il primo incontro fra Kelly Jones (Scarlett Johansson) e Cole Davis (Channing Tatum) sia da manuale del meet-cute. È il 1969, la NASA sta preparando la missione dell’Apollo 11 sulla Luna, e Cole è il direttore del programma di lancio. Considerando la portata epica dell’impresa, potremmo aspettarci che l’intera nazione sia riunita nel giubilo, ma non è così: le tensioni sociali post-Sessantotto e le proteste contro la guerra del Vietnam hanno dirottato altrove le attenzioni dell’opinione pubblica, al punto che molti reputano inopportuno spendere grandi cifre per l’esplorazione spaziale. Mentre il Congresso vacilla, l’antico entusiasmo che circondava la NASA è ormai un ricordo. Siamo però alla fine degli anni Sessanta, e Mad Men ci ha insegnato che una buona campagna pubblicitaria può vendere qualunque cosa, persino la Luna: ecco che allora il governo – nella figura del losco Moe Berkus (Woody Harrelson) – ingaggia un’esperta di marketing per risvegliare l’interesse degli americani nei confronti della missione, e spingere il Congresso a stanziare maggiori fondi.
La specialista è proprio Kelly Jones, donna dal passato oscuro che nuota senza problemi fra gli squali di New York. Accompagnata da un’assistente politicamente impegnata (Anna Garcia), Kelly si trasferisce al Kennedy Space Center di Cape Canaveral, incontra “casualmente” Cole in una tavola calda e comincia a studiare le migliori strategie per scaldare il cuore dei suoi connazionali. Ovviamente Cole non vuole che la spedizione più grande della storia umana venga venduta alla stregua di una Buick, ma le trovate di Kelly funzionano: tra sponsorizzazioni nazionalpopolari e figuranti bellocci intervistati dalla TV al posto dei veri scienziati, gli americani cominciano a esaltarsi per la missione. Greg Berlanti e la sceneggiatrice Rose Gilroy (il soggetto è di Bill Kirstein e Keenan Flynn) guardano il 1969 attraverso lenti tinte di rosa, preoccupandosi di metterne in scena una versione edulcorata, priva di asperità e di misoginia: in altre parole, sono gli anni Sessanta filtrati dal nostro immaginario romantico, per quanto la stessa Mad Men ne avesse già evidenziato il sessismo imperante. Al contempo, però, Fly Me to the Moon denuda le strategie della superpotenza capitalista, che vede la conquista della Luna come un mezzo per imporre il proprio stile di vita. Mettere un orologio di marca al polso degli astronauti conta più che spiegare agli americani il valore scientifico dell’impresa, poiché la chiave di tutto risiede nelle pubbliche relazioni: si costruisce un’immagine accattivante per sedurre gli spettatori, manovrandone i desideri tramite l’assuefazione consumistica.
Non a caso, il film attinge a una delle più grandi (e assurde) teorie cospiratorie del Novecento. Per evitare sorprese, Berkus ordina a Kelly di organizzare un falso allunaggio da trasmettere in diretta durante quello vero, in modo che le riprese siano controllabili da terra, e il mondo possa assistere al trionfo americano senza imprevisti. Naturalmente è tutto molto paradossale, all’insegna di una Storia alternativa che finisce per ridicolizzare le speculazioni dei complottisti: emblematico il sempre delizioso Jim Rash, nel ruolo del capriccioso regista scelto da Kelly per dirigere l’improbabile produzione. Le scene brillanti non mancano, alternate a momenti più stucchevoli, com’è lecito aspettarsi da un regista garbato (e con maggiore esperienza come autore televisivo) ma non certo raffinatissimo. Si sente molto il profumo rassicurante di Hollywood, quello che si sforza di mettere il pubblico a proprio agio e non sfidarne le convinzioni. Le buffe caratterizzazioni degli scienziati e l’accenno al discorso religioso – non sia mai che scienza e fede restino separate – servono proprio a colorare la missione dell’Apollo 11 con i valori dominanti, rimuovendo complessità e sfumature.
Alle menti hollywoodiane riescono decisamente meglio le schermaglie di coppia, cuore del rapporto fra Kelly e Cole, per quanto entrambi siano prevedibilmente gravati da traumi pregressi (un espediente di scrittura fin troppo abusato, diciamolo pure). Ciononostante, Fly Me to the Moon rievoca i classici della screwball comedy, e risale fino a un capolavoro come Susanna! per tratteggiare i due protagonisti: di fronte all’invadente allegria di Kelly e alla rigida serietà di Cole, è facile pensare all’eponima Susan Vance di Katherine Hepburn e al paleontologo David Huxley di Cary Grant. Anche qui, il personaggio maschile si trova in balia dell’iniziativa femminile, ed è costretto a riconoscerne il fondamentale contributo non solo alla missione, ma alla sua vita privata. E se Scarlett Johansson brilla con i suoi sorrisi maliziosi e la parlantina travolgente, Channing Tatum si rivela il suo partner ideale, col viso marmoreo perennemente spiazzato e messo a disagio dalle iniziative della collega. Alla fine, Fly Me to the Moon dimostra che le buone coppie da commedia romantica esistono ancora: basta dar loro una possibilità.