Cinema roberto recchioni Recensioni Cinecomic
Non siete un poco stanchi anche voi di quegli autori e delle loro opere che utilizzano il metalinguaggio per sopperire alle debolezze della storia e dell’intreccio, apparendo comunque intelligenti, acuti e post-modernamente consapevoli che in fondo la narrazione è un gioco di cui tutti conosciamo le regole e che, quindi, tanto vale dirlo apertamente?
Che cosa ho appena fatto?
Ho fatto un gioco meta che quelli che mi seguono anche come autore, da un certo numero di anni, avranno capito. Il concetto del periodo precedente, infatti, è una riproposizione di una delle critiche classiche che mi sono state fatte durante la mia gestione del personaggio di Dylan Dog. Proponendovela in apertura di questo pezzo, sto dando di gomito a chi mi conosce, mi segue ed è abbastanza acuto da capire l’autoironia.
Ve lo dico in anticipo: era un trucco divertente, fino a qualche anno fa. Oggi è un po’ stucchevole.
E veniamo a Deadpool & Wolverine, film diretto da Shawn Levy (Una notte al museo, il franchise che gli ha dato maggior successo, ma anche regista di Free Guy e Real Steel, ve li segnalo perché importanti nella sua designazione alla guida di questo progetto, vedremo dopo perché), trentaquattresima pellicola del MCU, esordio “ufficiale” dei due personaggi nell’universo cinematografico condiviso della Marvel e, soprattutto, ritorno di Hugh Jackman nei panni del mutante canadese più figo del mondo, Logan, Wolverine.
La trama in brevissimo: Paradox (interpretato dal sempre bravissimo Matthew Macfadyen, che dovreste ricordare per il ruolo di Tom Wambsgans in Succession) è un agente della TVA (la Time Variance Authority, l’organizzazione che presiede alla continuity del Multiverso, introdotta nella serie televisiva di Loki) e ha il compito di eliminare l’universo cinematografico della Fox in quanto questo universo ha perso il suo personaggio più importante, quello che dà un senso a tutto il resto. Questo personaggio non è Deadpool, che pure appartiene a questo mondo, ma Logan (che abbiamo visto morire nella bella pellicola omonima diretta da James Mangold). Paradox, comunque, vuole velocizzare il processo e per questa ragione coinvolge il mercenario chiacchierone interpretato da Ryan Reynolds, che però non è tanto dell’idea che le persone che ama spariscano, pur se questo gli garantirebbe un’entrata nella sacra linea temporale dell’universo 616, quello ufficiale dell’MCU, dove gli Avengers sono la cosa più figa del mondo. Da qui si scatenano una serie di incomprensioni che porteranno Deadpool nel vuoto (anche questo già visto in Loki), assieme al peggiore dei Logan, un Wolverine che ha completamente fallito nel suo mondo e che ora è in cerca di un qualche tipo di espiazione. La cosa importante di questo Logan è che, a differenza di tutti gli altri che abbiamo visto a schermo, indossa il suo classico costume giallo e blu. Il resto è impossibile da raccontare, non tanto perché rovinerebbe la trama in quanto tale (che è davvero minimale, parecchio confusa e non particolarmente significativa in nessun senso), ma perché si finirebbe per guastare le numerose gag e sorprese a base di ruoli cameo, inside joke e recuperi storici.
Bene: la pratica del riassunto ce la siamo tolta di mezzo, e senza usare ChatGPT (vedete? L’ho fatto di nuovo: una battuta meta che necessita, per essere davvero compresa, che voi sappiate della forte polemica che scuote il settore delle recensioni online, dove ragazzetti sottopagati si affidano ormai alle AI per far scrivere i loro articoli tutti uguali e acchiappaclick. Non vi sentite acuti, colti e parte di un gruppo di iniziati, ad averla colta?). Passiamo al giudizio del film.
Vale la pena di prenotare i biglietti a caro prezzo (specie se siete una famiglia), uscire di casa sfidando il caldo, prendere l’auto (e poi trovare parcheggio) o prendere i mezzi (ammesso che passino) per arrivare in una sala dove forse il film verrà ben proiettato (ma più probabilmente, no), in mezzo a gente che parla e tiene acceso il telefono?
Massì, dai, è abbastanza divertente.
Volete qualcosa di più, vero?
Immagino che pretendiate che, dato che mi pagano, io mi spenda per scrivere un’attenta e serissima analisi di un film che ha come unica missione quella di farvi fare quattro metarisate mentre vi eccitate a guardare i nuovi addominali di un Hugh Jackman in chiara crisi di mezza età post-divorzio, giusto?
Va bene. Facciamolo.
Sprechiamo il mio tempo e il vostro!
Dunque.
Il film è un action-comedy costruito su quattro pilastri.
Il primo pilastro è quello prettamente narrativo, cioè, la storia che il film racconta e il modo in cui la racconta. Vale davvero la pena parlarne? Insomma. È la quarta gamba di un tavolino che starebbe tranquillamente in piedi con tre. E chi ha realizzato la pellicola lo sa benissimo. La storiella è poca roba, funziona a malapena, è piuttosto confusa e vale giusto come espediente per mettere in scena le cose che davvero faranno fare i soldi (tanti) a questo film. Non fatevi troppe domande perché di risposte ce ne sono poche e sono pure sbagliate. Il che è un peccato perché non è detto che serva una buona storia per fare un film, ma aiuta, siamo sinceri. In sintesi: si poteva fare di più e si poteva fare meglio, e il coinvolgimento dello spettatore ne avrebbe goduto. Ma non è stato fatto perché, probabilmente, non fregava niente a nessuno di questo aspetto. Andiamo oltre. Non c’è niente da vedere o di cui scrivere, qui.
Il secondo asse è quello della buddy-buddy comedy, genere in cui gli americani sono i campioni quasi indiscussi (se non teniamo conto di Quasi amici di Olivier Nakache e Éric Toledano). Questo è un aspetto classico, che dovrebbe funzionare come un orologio svizzero perfettamente messo a punto. È così? Sì, abbastanza. Ma più perché Reynolds e Jackman hanno una forte chimica tra loro che per merito dello script. Le scene che sono state scritte per loro, non sono particolarmente brillanti, anzi, ma è così evidente che i due si sono divertiti a girarle assieme, che alla fine si diverte anche il pubblico a vederle. Anche qui: con un materiale del genere a disposizione (tra cast e personaggi), se ci si fosse impegnati un attimo di più in fase di scrittura, si sarebbe potuto avere qualcosa di straordinario. Ma perché farlo, visto che, comunque, anche senza impegnarsi, il risultato è comunque buono e farà impazzire il pubblico? Andiamo oltre di nuovo.
Il terzo pilastro: l’umorismo meta. Per il personaggio di Deadpool, tanto nei fumetti quanto al cinema, è sempre stato un elemento centrale e che qui è spinto ai massimi livelli. Cosa significa? Che non esiste un momento del film che non faccia un qualche riferimento (di solito irriverente) ad altro e che questo “altro” è sempre fuori dal film stesso. Per fruire tutte le battute del film (una densità enorme) bisogna non solo aver visto ogni film di supereroi dal 1998 a oggi, ma avere una cultura pop che spazia da Star Trek – L’ira di Khan (il film del 1982) alle commedie romantiche più oscure di Ryan Reynolds, una consapevolezza musicale che va da Madonna ad Aretha Franklin, passando per Huey Lewis & The News e gli *NSYNC, essere a conoscenza di gossip vari (da con chi è sposato Reynolds a come ha divorziato Hugh Jackman) e conoscere a menadito non solo le vicende produttive dei cinecomics (da come tutto è nato fino alla superhero fatigue attuale con particolare riferimento al presunto fallimento della Fase Quattro e del suo Multiverso) ma pure sapere tutto delle varie voci di corridoio che sono circolate su film mai realizzati o ancora da portare a schermo. Quando vedrete il film le cose saranno due: o sarete quel superappassionato di pop culture con le orecchie dritte e una visione molto ampia e un’ampia conoscenza storica, o sarete quelli che a talune battute rideranno perché anche gli altri ridono, e poi vi ritroverete a casa a guardare un video di un qualche content creator che si intitolerà: “tutti gli easter egg di Deadpool & Wolverine” (spoiler: raramente questi video li colgono davvero tutti, quindi non fate troppo i bulli quando li racconterete a vostra volta agli amici). Comunque sia, il film è la Sagrada Família della strizzata d’occhio, della gomitatina d’intesa nel fianco, del fan service più sfrenato e proprio in questo suo essere esagerato, privo di compromessi e sfacciato, trova un suo senso che, invece, nello script, nel ritmo e nell’umorismo di primo livello (di lettura), non trova.
E veniamo al quarto pilastro, il più importante, quello che da solo vale il prezzo del biglietto, e che ha un nome e un cognome: Hugh Jackman. Cioè, Hugh Jackman che torna a fare Wolverine. Ancora meglio, Hugh Jackman che torna a fare Wolverine e mette il costume giallo e blu. Avete presente James Bond? Quando Connery lasciò la parte, il mondo non accettò il primo sostituto trovato (George Lazenby, un ottimo Bond in un ottimo film di Bond, Al servizio segreto di Sua Maestà) e praticamente pretese il ritorno di Connery. Che tornò, invecchiato, svogliato e fuori forma, a interpretare la spia creata da Ian Fleming, in un film spento e fuori tempo massimo. Il pubblico capì che era ora di andare avanti e arrivò l’era Roger Moore. Ecco: per Jackman e Wolverine, non succederà mai. Potrà interpretare il personaggio per altri novant’anni, in qualsiasi stato di forma, e sarà sempre l’unico attore al mondo accettabile nel ruolo. Vederlo tornare a schermo, volenteroso, in forma, divertito e finalmente risoluto rispetto al fatto che lui sarà PER SEMPRE Logan, è uno spettacolo fantastico che ti fa dimenticare che il film non è così buono, le battute non così divertenti, il ritmo non così incalzante e via discorrendo.
E qui veniamo a Shawn Levy, il regista di questa pellicola. Un onesto mestierante che non ha mai brillato per nulla (miglior film: Real Steel ma era molto aiutato dal fatto che si trattasse di un remake non ufficiale di Rocky e Over the Top ma con i robot) che però ha un pregio enorme: è uno con cui tanto Jackman, quanto Reynolds, si sono trovati bene a lavorare. Ed è solo grazie a lui (e all’assillante insistenza di Reynolds, pare) che siamo tornati ad avere sul grande schermo un Wolverine interpretato dall’unico attore che può interpretarlo. Tutte le altre considerazioni sono marginali di fronte a un merito del genere.
Infine, una considerazione nerd: il film dovrebbe essere un grande atto d’amore e un saluto all’universo Marvel della Fox e a tutti quei film Marvel nati prima dell’MCU. Questo sulla carta perché poi, a stringere, non mi sembra che la fitta trama del Multiverso sia stata davvero dipanata e tanti nodi sono rimasti ben lontani dal pettine, a cominciare dai mutanti (che secondo alcuni sono stati ufficialmente introdotti da questo film nel MCU ma io non ho capito come), per finire con Deadpool stesso, che non è per nulla chiaro in quale universo narrativo viva adesso (insieme agli altri personaggi che si vedono nelle ultime scene del film). Detto questo: è poi così importante? Per me, no, ma so già che la gente si scannerà sul grosso margine interpretativo che questa pellicola ha lasciato.
Quindi, andando a stringere: è un buon film? Insomma. Carino ma poteva essere meglio. Fa molto ridere? Dipende se cogliete i riferimenti. Se non li cogliete, non tanto. Vale la pena vederlo? Non ha scene particolarmente memorabili, significati di qualche tipo o una trama appassionante, ma sì, per me vale la pena vederlo, principalmente per Hugh Jackman che fa Wolverine e ha il costume giusto. E poi, avendo capito quasi tutte le battute, qualche risata me la sono anche fatta.
Ultima notarella a margine: il doppiaggio, oltre a non essere proprio brillante e a proporre un discutibile adattamento di alcuni termini (tipo tradurre “bub” con “bomber” invece che con “cocco”, come nelle edizioni italiane dei fumetti), appiattisce il gran numero di guest star che doppiano tantissimi personaggi a volto coperto che appaiono nel film. È un peccato perché ci sono parecchi inside joke divertenti nel cast del film. Se potete, guardatelo in originale.