Nel 2000, quando uscì il primo X-Men della Fox, i film di supereroi erano ancora un territorio incerto. Hollywood non riponeva molta fiducia nella Marvel – peraltro reduce da anni di profonda crisi – e scelse lo sguardo gelido di Bryan Singer per razionalizzare l’anima pop dei fumetti, puntando tutto sulla metafora dell’intolleranza e sulle uniformi di pelle post-Matrix. Ora, 24 anni più tardi, lo scenario è cambiato: il cinecomic è stato ormai codificato in quanto genere, la stravaganza degli albi originali ha trovato spazio anche sul grande schermo, ma il cinema supereroistico – in crisi dopo lo strapotere degli ultimi due decenni – paradossalmente deve tornare proprio alle origini per rilanciarsi. «Sono il Gesù della Marvel» esclama Wade (Ryan Reynolds) all’inizio di Deadpool & Wolverine, e in effetti il Mercenario Chiacchierone irrompe nel Marvel Cinematic Universe come un messia redentore, un salvatore inaspettato ma necessario. Se il catalogo dei Marvel Studios, un tempo infallibile al botteghino, negli ultimi tempi è divenuto altalenante, la follia metanarrativa di Deadpool rappresenta la cura ideale: un personaggio amato, con fama di guastatore, che arriva per stravolgere – almeno momentaneamente – la rigida compostezza del MCU, franchise sempre attento a non offendere nessuno con il suo linguaggio appropriato e la repressione di ogni pulsione sessuale. Ma non stavolta. Al fine di redimere questo universo narrativo, Kevin Feige e soci hanno avuto bisogno della licenziosità di Ryan Reynolds, attore che ha ormai eliminato qualunque barriera tra sé stesso e i suoi personaggi.
La scena iniziale è indicativa di come Deadpool sia uno strumento prezioso per la Marvel, tanto nei fumetti quanto al cinema. È il personaggio che si spinge non soltanto oltre la barriera della quarta parete, ma ben oltre i limiti del pudore, su sentieri considerati irrispettosi o indecenti; persino alle spese di Logan, considerato da molti uno dei più alti esempi di cinema supereroistico “elevato”. Al di là dello shock, però, il punto focale è un altro. La sceneggiatura scritta a molte mani (non solo dallo stesso Reynolds e dal regista Shawn Levy, ma anche dal fumettista Zeb Wells e dalla collaudata coppia Paul Wernick / Rhett Reese) mette subito in luce una corrispondenza tra il potere dello studio e quello degli Avengers: candidarsi a entrare nella squadra è come fare un colloquio di lavoro per la Disney, insomma. Questo gioco di rimandi tra realtà e finzione è una costante nel film, com’è lecito aspettarsi da un eroe storicamente “meta”, consapevole di essere un personaggio fittizio in un mondo inventato. Accade allora che la trama sia volutamente artificiosa, poiché essa non ha grande importanza: ciò che conta è dare al pubblico quello che vuole, e giustificare l’inserimento di alcuni personaggi Fox nella Sacra Linea Temporale del MCU.
Non a caso, la storia prende piede da un’idea forzata, puro espediente narrativo utile a innescare il conflitto. Grazie a Mr. Paradox (Matthew Macfadyen), funzionario della Time Variance Authority assegnato al suo universo, Deadpool scopre che ogni realtà è provvista di un’Ancora Universale, ovvero un personaggio imprescindibile la cui morte porta al collasso dell’intera linea temporale. Nell’universo di Wade, quel personaggio era Logan (Hugh Jackman), deceduto nel film di James Mangold, e per questa ragione la sua linea temporale sta per essere eliminata. È interessante notare come dietro simili trucchetti di sceneggiatura si celi un ragionamento corporativo, neanche tanto campato in aria: certi personaggi sono molto più popolari di altri, vendono molto di più (come Wolverine tra i mutanti Marvel), e la loro soppressione equivale a uccidere l’universo di cui fanno parte. Deadpool & Wolverine è ricco di queste trovate, spesso argute, che mettono in relazione i due livelli del racconto.
Perché, inutile nascondersi: quella a cui assistiamo è un’elaborazione creativa di vicissitudini finanziarie e dirigenziali, figlie dell’acquisizione della Fox da parte della Disney. Shawn Levy, mestierante abilissimo nel cinema delle attrazioni, riannoda i fili dei vecchi franchise lasciati in sospeso, rileggendo il Vuoto (la dimensione in cui viene esiliato chiunque rappresenti un pericolo per la Sacra Linea Temporale, introdotta in Loki) come un limbo per i personaggi dimenticati dagli studios, gli spettri delle saghe passate. Ne deriva una parata di camei talvolta clamorosi, e un gusto iconoclasta che abbiamo già visto due anni fa in Doctor Strange nel multiverso della follia, ma portato all’estremo. Croce e delizia degli universi paralleli: puoi sottoporre i personaggi più intoccabili alle peggiori nefandezze, ma qualunque cosa succeda ha scarso valore, dato che di quegli eroi ne esistono innumerevoli copie. La posta in gioco, almeno per i personaggi di contorno, è pressoché nulla.
La centralità assoluta è infatti di Deadpool e Wolverine, la cui collaborazione inanella un fan service dietro l’altro. Dopo una ricerca molto spassosa e ricca di sorprese, Wade trova infatti un Logan disperato e sconfitto, in una realtà dov’è odiato da tutti. Il loro rapporto è uno scontro continuo, alimentato dal fatto che entrambi – grazie al fattore rigenerante – non possono morire. Wolverine rappresenta l’ideale a cui Deadpool aspira (un eroe capace di mutare le sorti del mondo), e quindi ha bisogno di lui per salvare il proprio universo, dove vivono Vanessa (Morena Baccarin) e tutti gli amici che abbiamo incontrato nei due film precedenti. Sul loro cammino trovano però Cassandra Nova (Emma Corrin), sadica e potentissima gemella di Charles Xavier, le cui origini vengono appena accennate: anche lei, in fondo, è solo uno strumento narrativo per garantire il conflitto, in un teatrino delle marionette dove i fili sono sempre in bella vista. Levy e Reynolds, però, non dimenticano mai di divertire il loro pubblico, al di là di ogni richiamo metacinematografico. L’azione è ricca di dinamicità e pose plastiche, l’umorismo eccessivo e paradossale non manca mai, e i continui riferimenti sessuali ci rammentano che siamo in una produzione R-rated. Tra pegging (ovviamente solo citato), cocaina e vagonate di turpiloquio, l’impressione è di vedere il primo della classe che si atteggia a ragazzo cattivo, tirando fuori tutto il repertorio scabroso allo stesso momento, senza freni.
L’esito finale è comunque uno spasso, anche perché Deadpool è come un virus impazzito nel sistema. Sconcio e violento, sarcastico e gioiosamente queer, rappresenta proprio tutto ciò che l’MCU non è. Anche il ricorso a canzoni pop degli anni Ottanta, Novanta e Duemila aiuta a caratterizzare il personaggio, dando voce alla nostalgia di almeno tre generazioni diverse: la colonna sonora alterna infatti brani di culto come Like a Prayer, Iris e Bye Bye Bye, già riportata in voga da Sean Baker in Red Rocket. È un tornado sanguinolento e ultrapop che ribalta non solo le produzioni medie dell’MCU, ma anche la cupa freddezza degli X-Men targati Fox, che comunque il film si preoccupa di omaggiare nei modi più svariati. Alla fine, Deadpool & Wolverine è l’emblema di come il cinismo delle multinazionali si traduce in intrattenimento, convertendo le potenziali rogne in opportunità: due decenni di franchise lanciati e affondati, centinaia di milioni spesi, e tutto questo solo per trasformarsi in un grande scherzo. Fortunatamente si vede che Reynolds ha a cuore i personaggi, e offre a Hugh Jackman l’opportunità di dare tutto con il suo Wolverine, mettendogli a disposizione un ventaglio espressivo più ampio che in passato. La linfa vitale del film non risiede tanto nelle manovre burocratiche dei grandi studios, ma nel fatto che entrambi credano ancora in quello che fanno.