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The Bikeriders, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 20 giugno 2024 di Roberto Recchioni

Il cinema americano si è innamorato delle bande di motociclisti praticamente da subito, da quando cioè il fenomeno si iniziò a diffondere sulle strade americane.

La storia in breve: siamo agli sgoccioli degli anni quaranta, la Seconda Guerra Mondiale è finita da poco e la società americana se la deve vedere con una parte dei reduci di quel conflitto, che è tornata a casa con vari problemi e che è del tutto spaesata dal nuovo mondo di benessere e consumismo che ha investito la nazione. Persone che si sentono messe ai margini da un mondo che non capiscono e che ha perso di senso e significato.
Dall’altra parte, ci sono i giovani, che non si riconoscono nei valori dei padri e delle madri e che si ribellano. A cosa, non è ben chiaro a nessuno, tanto è vero che vengono definiti “ribelli senza causa”. Questa generazione trova la sua voce nel nascente rock ‘n’ roll, nella cultura “beat” e nella sperimentazione delle droghe come mezzo per espandere le porte della percezione.
Strano a dirsi, ma questi due poli si incontrano e si uniscono nel loro odio per il conformismo e nel loro bisogno di essere qualcosa di diverso rispetto a quanto imposto dal sistema.

In quegli anni, gli Stati Uniti sono “La nazione delle auto”. Avere una bella vita significa avere una rispettabile quattro ruote parcheggiata nel garage delle tua villetta con giardinetto in periferia. Il sogno americano. È per questo che i reietti scelgono le moto come loro mezzo di locomozione.
Nascono così i primi Motor Club, formati principalmente da ex-piloti di caccia bombardiere che si comprano (o si costruiscono) un moto, si riuniscono, sgasano per le strade e fanno baldoria. Già nel ‘47 scoppia la prima rogna seria. Siamo a Hollister, in California. La cittadina sta ospitando un tranquillo raduno di motocilisti (intesi come semplici appassionati di moto) quando alcuni Motor Club (non invitati all’evento) iniziano una rissa che rapidamente divampa per tutta la cittadina, mettendola a ferro e a fuoco. Intervengono polizia ed esercito per sedare gli animi ma, soprattutto, arrivano i giornalisti, che cavalcano la notizia di questi pericolosi teppisti. L’American Motorcyclist Association diffonde subito un comunicato per prendere le distanze dai facinorosi, affermando che il 99% dei motociclisti sono cittadini rispettosi delle leggi. Per tutta risposta, i Motor Club (che d’ora in poi chiameremo MC), iniziano a portare una toppa romboidale sui loro giubbotti con scritto, semplicemente, “1%”. Nasce il mito del “Onepercenters”, dell’outlaw, il fuorilegge in sella a una moto rombante. I Pissed-Off Bastards Of Bloomington (i protagonisti delle sommosse di Hollister) cambiano nome (l’acronimo era ridicolo: POBOB) e diventano gli Hells Angels, assurgendo a un ruolo di primo piano.

Intanto Hollywood ci mette poco a capire che questi motociclisti anno un’eco nel mito americano e che rappresentano la diretta discendenza di quei fuorilegge della frontiera americana, gente come Billy the Kid e Butch Cassidy, che il cinema ha romanticizzato con pieno successo. Nel 1954 esce The Wild One (Il selvaggio, da noi), per la regia di László Benedek, con un giovane Marlon Brando nel ruolo di Johnny Strabler, il protagonista del film, un ribelle con il giubbotto di pelle, una t-shirt bianca, dei jeans scolorito e un berretto da aviatore in testa. E, ovviamente, una moto (una Triumph Thunderbird del 1950). Grazie, soprattutto, all’interpretazione di Brando, la figura di Strabler e il suo look diventano immediatamente iconici, così come il suo senso di ribellione verso la società costituita. Se prima di The Wild One quello dei Motor Club era un fenomeno da considerarsi di nicchia, dopo la sua uscita diventa un caso nazionale perché centinaia di persone, ispirate dal film, decidono di salire in sella una moto e di fare una passeggiata sul lato selvaggio della strada. Tra queste, un camionista di Chicago, John Davis, che già prima della guerra aveva fondato un club di appassionati delle moto (più che altro di gente che amava correrci) ma che, tornato dalla guerra e ispirato da Brando, decide di riprenderne le fila e rilanciarlo: nascono così gli Outlaw di Chicago che diventano molto noti grazie al libro fotografico di Danny Lyon, The Bikeriders. Lyon segue la banda (entrando pure a farne parte) per tutti gli anni sessanta, ne fotografa lo stile di vita e intervista molti dei suoi membri più significativi e le loro compagne.

Gli Outlaw e gli Hells Angels, in questa fase della loro storia, sono combriccole di persone bianche, generalmente impiegate in lavori di fatica, che nel fine settimana si riunisce per fare baldoria, azzuffarsi e terrorizzare i benpensanti. Compiono atti criminali? Certo, ma si tratta di gesti di vandalismo e turbativa dell’ordine pubblico, non di crimine organizzato. Poi le cose cambiano: scoppia la guerra del Vietnam, fiorisce (e sfiorisce) la controcultura degli hippie, le droghe pesanti si diffondono, Nixon si fa pescare con le mani nel barattolo della marmellata del Watergate e gli USA perdono la loro innocenza e i MC con loro. Tra le fila delle varie gang, infatti, iniziano a entrare reduci del Vietnam abituati alla violenza e disperati di ogni sorta, non più gente che diventa un “fuorilegge” nei fine settimana, quando non lavora, ma veri e proprio reietti della società. Nelle loro fila si creano due fazioni distinte: da una parte i “bevitori di birra”, generalmente più vecchi e appartenenti alla prima generazione di membri del club, dall’altra parte, i “fumatori di mariujana”, più giovani, e arrivati dopo. John Davis viene ucciso da uno di questi all’inizio degli anni settanta, per una lotta interna sul controllo del club. La sua morte segna la fine di quella che viene definita come “l’età dell’oro” dei Motor Club e l’inizio di una nuova fase, fatta di crimine organizzato, spaccio di armi e droghe e tanti, tanti, omicidi.

Il film The Bikeriders di Jeff Nichols (bravo regista sempre coinvolto in film semi-indipendenti con storie belle e anomale da raccontare), partendo proprio dal libro di Danny Lyon, cerca di raccontare questa prima fase del mondo dei MC, usando i suoi protagonisti e le loro storie come veicolo per raccontare non tanto una storia di motociclisti quanto una storia di esseri umani che non si riconoscono nella società costituita e cercano, in qualche maniera, di trovare un posto nel mondo. Una storia larga, insomma, raccontata però attraverso un contesto molto stretto e specifico.

Nel suo insieme, il film ricorda da vicino Un mercoledì da leoni di John Milius (gli anni sono quelli e l’idea di base è la stessa: usare una sottocultura per raccontare qualcosa di universale sulla società e sull’essere umano) ma c’è una differenza sostanziale: mentre Milius era un surfista e amava il surf, Nichols non è un motociclista e non ama le moto. Se, quindi, Milius riesce a infondere tutta la sua passione per il cavalcare le onde su una tavola da stiro e su come questa attività, apparentemente così insensata, possa assurgere a senso della vita, per taluni, Nichols non riesce proprio a farci capire perché la sua banda di disperati trovi proprio nelle moto e nell’andare in moto in gruppo, la sua ragion d’essere. Questo dettaglio azzoppa un poco il film perché The Bikeriders ci mostra bene gli effetti di una ossessione su delle persone, non è però capace di farci capire il perché di quella ossessione. I personaggi restano quindi dietro un vetro e noi, più che diventare loro, li osserviamo come strane bestie di uno zoo. Il secondo problema del film di Nichols è che cade nella retorica classica di Hollywood che trasforma dei disperati in figure antieroiche e romatiche. Per quanto il regista cerchi un distacco moderno dalla materia trattata e un punto di vista critico, il suo occhio non riesce proprio a non operare un processo di estetizazzione per tutte le figure del film, non dissimile a quello messo in atto da László Benedek con Marlon Brando (o da John Milius con i suoi surfisti, appunto). In poche parole, nonostante le botte prese e la vita squallida e al limite che conducono, i protagonisti di The Bikerider sono tutti belli e desiderabili, corpi scenici da possedere o a cui somigliare.

Detto questo, non mi sento di fare altri grossi appunti alla pellicola che è scritta in maniera molto semplice ed efficace, con ottimi dialoghi e un equilibrio complessivo che dona, tanto ai protagonisti quanto alle figure di contorno, tutti i giusti momenti per brillare. Le regia è sobria come Nichols ci ha sempre abituato mentre la fotografia di Adam Stone (esaltata dalle lenti vintage e la pellicola Kodak usata per le riprese) ha i colori di un quadro di Norman Rockwell senza mai risultare stucchevole, i costumi, le scenografie e tutti i props di scena sono maniacali nella loro fedeltà storica (anche se dal vestiario dei motociclisti sono sparite tutte le croci di ferro naziste), la colonna sonora evita scelte facili e scontate. E poi ci sono gli attori, che sono un capitolo a parte e rappresentano il vero valore del film. Prima di tutto, c’è il terzetto di protagonisti dove Austin Butler fa quello che gli riesce meglio, cioè nell’essere un magnete per gli occhi (la sua bellezza da divo d’altri tempi è, a tratti, quasi imbarazzante) e per le orecchie (quella sua parlata strascicata che si porta ancora dietro da Elvis sarà pure un poco ridicola ma è sexy da morire), Tom Hardy giganteggia da par suo, giocando sempre con intelligenza sul contrasto tra la sua fisicità e quella vocina stridula che si ritrova, donando al personaggio una complessità che è più nelle sue espressioni che nello script, e Jodie Comer centra il ruolo della vita, lavorando splendidamente sull’accento del suo personaggio e giocando splendidamente sulla sua ambiguità. Poi ci sono i comprimari: Mike Faist che si conferma come uno dei volti più interessanti della sua generazione (sempre sia lodato Steven Spielberg per avercelo fatto scoprire), Boyd Holbrook (segnatevi il nome che farà strada), Emory Cohen (non sarà mai un protagonista ma potrebbe diventare un grande attore), Damon Herriman (lui, un bravo attore, lo è già), Toby Wallace (che con pochissime pennellate crea un personaggio di cui avremmo voluto sapere molto di più), Norman Reedus (in un film con delle moto non poteva non esserci) e su tutti, abbastanza prevedibilmente, Michael Shannon, che ha due monologhi in cui si ruba il film.

Insomma, in conclusione, The Bikeriders è un buon film a cui manca qualcosa per essere davvero grande ma che, grazie al suo reparto attoriale, riesce comunque a volare altissimo.
Il consiglio è di vederlo in lingua originale però, perché doppiato perde davvero tantissimo (non per colpa dei doppiatori ma perché, inevitabilmente, si perde tutto il lavoro fatto su accenti e slang dagli attori).