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Hit Man, la recensione dell’imperdibile film di Richard Linklater

Pubblicato il 26 giugno 2024 di Lorenzo Pedrazzi

George Bernard Shaw diceva che “La vita non è trovare sé stessi, la vita consiste nel creare sé stessi”, e il protagonista di Hit Man prende questo insegnamento piuttosto alla lettera. Forse non dovremmo stupirci che Richard Linklater sia riuscito a estrarre dal cilindro un film così brillante (il suo cinema è sempre stato abile ad alternare i toni), ma sorprendente è quantomeno la genesi dell’opera: il regista texano e il protagonista Glen Powell, suo co-sceneggiatore, hanno tratto ispirazione da un articolo di Skip Hollandsworth incentrato su Gary Johnson, professore universitario di Huston che si fingeva assassino a pagamento per sventare potenziali omicidi e incastrare i mandanti, ovviamente in collaborazione con la polizia.

Nella sceneggiatura di Linklater e Powell, Gary diventa un professore di filosofia dell’Università di New Orleans (il Texas non offriva incentivi fiscali alle produzioni cinematografiche, da cui la scelta di trasferire la storia in Louisiana), ma il concetto di base non cambia. Gary, interpretato dallo stesso Glen Powell, è un uomo pacato che vive con due gatti, si veste in modo ordinario e risulta anonimo a tutti quelli che incontra. All’inizio, la sua collaborazione con la polizia è solo come supporto tecnico, ma la sospensione del ruvido Jasper (Austin Amelio) lo costringe a prendere il suo posto sul campo: dovrà fingersi un sicario per estorcere confessioni ai committenti dei delitti. È qui che Hit Man comincia a imboccare la sua strada, allontanandosi dichiaratamente dal vero Gary Johnson per costruire una vicenda fittizia. Gary, che con i suoi studenti riflette spesso sul tema dell’identità, approfitta di questa situazione per inventarsi personaggi sempre nuovi da interpretare con i sospettati, adeguando la caratterizzazione di ogni sicario al cliente che lo ingaggia.

Il talento di Powell inizia così a delinearsi in tutto il suo trasformismo, spiazzando chiunque lo abbia sempre incasellato nei ruoli da spaccone belloccio. Hit Man è anzitutto il suo riscatto dai cliché hollywoodiani, grazie a un regista che lo conosce bene (i due lavorano insieme fin dai tempi di Fast Food Nation) e che sa valorizzarne le capacità. Perché i buffi travestimenti di Gary sono solo la punta dell’iceberg: il mite professore, infatti, si rende conto che la sua personalità non è immutabile, ma può cambiare con la dedizione e l’esperienza, imponendo a sé stesso un carattere nuovo. Ciò che gli serve è solo una buona ragione per farlo, e questa gli appare davanti agli occhi con le fattezze di Madison (Adria Arjona), moglie bella e infelice di un uomo possessivo. Madison cerca un killer che levi di mezzo il marito, e Gary inventa una nuova identità apposta per lei: il fascinoso Ron, assassino stiloso e pieno di coolness. L’attrazione reciproca però rovina i piani di entrambi, e Gary comincia una relazione con lei, mantenendo sempre (all’insaputa dei colleghi poliziotti) la personalità di Ron. Ecco allora che Glen Powell mette a frutto le sue doti: vediamo l’identità di Ron riversarsi gradualmente in Gary, che comincia a rimanere “nel personaggio” anche in assenza di Madison. Ma ormai non c’è più alcun personaggio, è Gary che sta acquisendo i tratti di Ron. Si veste in modo più accattivante, cambia postura, è più sicuro di sé. La metamorfosi parte da qui.

Hit Man, insomma, riflette con ironia sulla retorica tutta americana del cambiamento: in una cultura dominata dal pragmatismo dei guru, che pretendono di insegnarci a vivere tramite keynote e libri di auto-aiuto, Linklater (re)immagina un personaggio capace di stravolgere sé stesso con la forza di volontà, guidato dalle sue conoscenze filosofiche e psicologiche. Un’evoluzione a cui assistiamo con i nostri occhi, notando piccoli mutamenti progressivi sul volto e sul corpo di Gary. Tale rinascita coincide anche con una liberazione sessuale, perché Hit Man – in controtendenza rispetto a Hollywood – non rifugge dalla carnalità, anzi, lascia che esploda sulla pelle dei protagonisti. L’intesa fra Glen Powell e Adria Arjona è impeccabile anche sul piano fisico, nella sensualità degli amplessi come pure nei serrati duelli verbali. Sì, perché il rapporto tra Gary/Ron e Madison attrae sia l’attenzione del marito (ora diventato ex) sia quella di Jasper, con tutte le complicazioni del caso. E Arjona è bravissima a rispondere colpo su colpo alle imbeccate del compagno, soprattutto nella memorabile scena madre in cui la coppia deve sovrapporre diversi livelli di finzione, dando luogo a un litigio simulato mentre la polizia ascolta ogni parola. In tal senso, Hit Man è una commedia che accumula svariati piani di “realtà”, con personaggi fittizi che interpretano altri personaggi fittizi, per un gioco metanarrativo dove tutto è messa in scena. D’altra parte, non era Shakespeare che usava il teatro nel teatro per denudare la verità? Linklater, cineasta raffinato che non disdegna l’intrattenimento di gran classe, fa qualcosa di molto simile.

Così, tra dialoghi scoppiettanti e caratterizzazioni incisive, Hit Man si prende gioco anche di un’altra retorica tipicamente americana: quella del lieto fine con la famiglia tradizionale. Il film stesso, in fondo, distorce il classico meet cute delle commedie romantiche, e lo stesso può dirsi per la relazione che ne consegue. Il nucleo familiare più riconoscibile di tutti, nonché il più amato da Hollywood, affonda le radici nella menzogna e nel sangue: forse, sembra suggerirci il regista, è questo l’unico modo per avere successo nella terra delle opportunità.