Era il 2021 quando le forze dell’operazione Sostegno Risoluto si ritirarono dall’Afghanistan, lasciando di fatto il campo aperto al ritorno dei talebani. Ma se gli Stati Uniti sono restii a fare i conti con la Storia, il cinema invece ama prenderla di petto, e Fremont dimostra come l’arte sia molto più avanti della politica nel toccare certi nervi scoperti: la protagonista del film di Babak Jalali è infatti Donya (l’esordiente Anaita Wali Zada), ex interprete dell’esercito americano a Kabul, costretta a fuggire dal suo paese dopo il ritiro della NATO. Trasferitasi nell’eponima città della Bay Area, ha trovato lavoro a San Francisco presso una fabbrica di biscotti della fortuna, dove piega e impacchetta i dolcetti insieme alla collega Joanna (Hilda Schmelling), la sua unica amica. Donya non riesce a dormire, e grazie al connazionale Selim (Siddique Ahmed) ottiene un appuntamento presso il Dr. Anthony (Gregg Turkington), un terapista ossessionato da Zanna Bianca. Il dottore lavora anche pro bono, e accetta di prescriverle dei sonniferi se lei si sottoporrà ad alcune sedute di psicoterapia: è chiaro che Donya soffre di sindrome da stress post-traumatico, ma non vuole ammetterlo.
La sua storia riecheggia quella di molti rifugiati politici e lavoratori immigrati, trapiantati nella terra delle opportunità con un visto di lavoro e ben poche garanzie. È il volto nascosto del sogno americano: una realtà fatta di banale routine, dove l’integrazione spesso è solo di facciata, e l’unica via di salvezza sta nel cercare un rapporto con il prossimo. Non a caso, il punto di svolta coincide proprio con la ricerca di una connessione umana. Donya viene promossa a scrittrice di bigliettini da inserire nei biscotti, e decide di stamparne uno con un messaggio personale, sperando che una persona nel mondo lo trovi e decida di rispondere. Potrebbe essere la trama di una classica commedia romantica, eppure Fremont ha ben poco di scontato, e rifiuta qualunque struttura narrativa predeterminata: al massimo, ciò che racconta è la lunga premessa di una rom-com, quello che succede nella vita della protagonista prima dell’incontro fatale. È buffo, perché una premessa del genere avrebbe potuto evolversi tranquillamente in un dramma esistenziale, mentre Babak Jalali e la co-sceneggiatrice Carolina Cavalli ne ricavano una commedia delicata e straniante, vicina ai toni di un certo cinema scandinavo.
Fremont, in effetti, è un film ricco di umorismo laconico, popolato da personaggi bizzarri con cui Donya interagisce regolarmente, e che vanno a comporre un dolcissimo ritratto di umanità ai margini: dal ristoratore appassionato di soap opera all’affabile titolare della fabbrica, passando per l’amica in cerca d’amore e il solitario meccanico di un’officina sull’autostrada, tutti i personaggi sembrano confinati in un quadro molto ristretto di possibilità, e tirano avanti come possono. La scelta del formato in 4:3 suggerisce proprio questo. Jalali imposta il racconto nel modo più intimista possibile, lavorando sui corpi degli attori e sulla loro collocazione negli spazi chiusi, mentre evita quasi del tutto i campi lunghi e le inquadrature dei paesaggi. Anche il bianco e nero contribuisce a un’idea di intimismo molto marcata, dove la sottile malinconia di fondo favorisce la comicità deadpan. Il montaggio, curato dal regista, opera nella stessa direzione: esemplare la scena in cui Joanna telefona a Donya quando entrambe si trovano ormai a letto, per proseguire un discorso lasciato in sospeso sul lavoro.
Altrettanto stralunate sono le sessioni con il Dr. Anthony, che nel sopracitato romanzo di Jack London sembra trovare la sintesi dell’intera esistenza. E, per quanto riguarda Donya, il terapista ha pure ragione: la ragazza finisce infatti per rivedere alcuni tratti di sé nel celebre lupo, il quale fatica a trovare un posto nel mondo a causa della sua natura ibrida. Analogamente, Donya non si sente a casa in America perché quella non è la sua terra, ma è stata anche respinta dalla sua gente in Afghanistan perché considerata una traditrice. Il maggior pregio della sceneggiatura sta proprio qui: Donya scopre qualcosa di sé attraverso il rapporto con gli altri, e in virtù dei suoi contatti umani (come i dialoghi con Aziz, titolare del ristorante mediorientale dove la ragazza va spesso a cena) acquisisce una maggiore consapevolezza della sua interiorità e dei suoi desideri. Non c’è nulla di male ad ammettere le proprie esigenze, né a riconoscere quel vuoto che soltanto il rapporto con l’altro può colmare. Magari a partire da un caffè con un ragazzo gentile al margine della strada, scegliendo di fermarsi laddove tutti corrono veloci.