The Apprentice è il talent show con cui Donald Trump dal 2004 divenne un vero e proprio personaggio televisivo costruendo quella simpatia tra il pubblico generalista che gli avrebbe poi agevolato la nomination a candidato alla Casa Bianca. A ogni puntata dava consigli e rimproveri ad aspiranti imprenditori. Forse è stato l’unico progetto davvero riuscito dalla sua carriera almeno guardando gli ascolti. Da imprenditore nel settore immobiliare Trump ha infatti raccolto, con le sue aziende, ben sei bancarotte tra il 1991 2009. Alla fine i soldi li ha fatti più vendendo licenze sul suo nome che con i suoi hotel o casinò. La sua capacità di mostrare sé stesso come l’impersonificazione dell’uomo di successo è però innegabile, anzi, è ancora più rimarchevole se si pensa che dietro c’è in realtà il nulla neanche l’idea che sia un self made man. Il papà era anche lui un imprenditore nel settore immobiliare. Questa sua capacità di negare l’evidenza, di usare qualsiasi metodo lecito o illecito per i suoi interessi, deve essere nata in qualche modo. Quale è stato il suo apprendistato: dove, quando, con chi?
È a queste domande che prova a rispondere il bel biopic di Ali Abbasi, al primo lavoro in lingua inglese sul grande schermo dopo la direzione di alcuni episodi della serie The Last of Us e un bel curriculum di film da festival (tutti buoni secondo noi), tra cui Border- Creature di Confine (2018) e Holy Spider (2022). Il titolo The Apprentice è solo una strizzatina d’occhio al programma tv, una metafora, non ve ne è traccia nel film.
In questo biopic si parla infatti dei primi anni del Trump imprenditore. Si inizia quando è poco più di ventenne e affannosamente ricerca un avvocato pronto a qualsiasi espediente per difendere l’azienda del padre dalle accuse razzismo nella modalità di assegnazione degli appartamenti in affitto di un palazzo a New York e si conclude quando ormai è pieno della sua boria e non guarda in faccia a nessuno, poco prima comunque della sua prima bancarotta.
Nel mezzo c’è la risposta alla domanda che avevamo posto poco più sopra. È una persona, l’avvocato Roy Cohn. Un uomo contraddittorio, conservatore, ma gay, schietto, ma morto negando la sua omosessualità e l’Aids, una persona senza scrupoli che, almeno secondo la sceneggiatura scritta dal reporter Gabriel Sherman (basata su fatti veri e documentati dice una didascalia all’inizio), ha formato gli aspetti più terribili della personalità di Trump. Sono sue le tre regole su tecniche di manipolazione mediatica e strategie legali che l’imprenditore poi definirà come imprescindibili nella sua prima biografia e che oggigiorno possiamo osservare ogni volta, o quasi, che si difende in pubblico.
Cohn è un nome noto nella storia degli Stati Uniti della seconda metà del ventesimo secolo. Fu accanto a McCarthy, Nixon e Reagan, contribuì alla condanna a morte delle celebri spie russe Julius e Ethel Rosenberg, difese mafiosi e star del cinema. Si tratta di un uomo che meriterebbe un film a parte e che qui, interpretato da uno straordinario Jeremy Strong emerge come una figura centrale nel carattere del futuro Presidente statunitense, un mentore il cui rapporto con il suo protetto è la struttura portante del film.
Siamo nella New York degli anni ’70 e ’80. Il degrado della città non è solo nelle strade, ma anche nella fame di affari a qualunque costo di chi dovrebbe provare a risolvere le cose: procura, politica, imprenditoria. La concitazione della vita di questi personaggi, l’adrenalina che muove chiunque si trovi in questo mondo si ritrova nel ritmo che Abbasi dà al suo film. Tutto avviene velocemente. Il film segue il flusso di pensieri, probabilmente continuo, del suo protagonista. Soldi, sesso, amore, amicizie: tutto è strumento, mai obiettivo. Nonostante questo The Apprentice riesce a non buttarci tutto davanti, già fatto. Il personaggio Trump cresce durante il film, c’è una maturazione. Il suo abbracciare il lato oscuro è graduale. Non che ci volesse molto a trovarsi da quella parte della forza, il padre non era un santo e non viene descritto come un grande genitore, ma il film ce lo racconta come un processo graduale diventando, se si vede il Trump di oggi, una sorta di vademecum sul Come si diventi cattivi. Ed è avvincente, interessante, uno dei migliori film visti al Festival di Cannes 2024 e con un bravissimo Sebastian Stan.
Il film non ha ancora una distribuzione statunitense, ed è un peccato. Speriamo possa trovarla prima delle elezioni.
Ultima nota: mentre scrivevamo il pezzo sono uscite le minacce dei legali di Trump che denunciano come falsa la scena dello stupro dell’ex presidente ai danni dell’allora moglie Ivana. Vedremo come andrà a finire.