Sarà stato più o meno quarant’anni fa. Una sera in TV danno il secondo e allora più popolare dei film di Mad Max. Che sia un seguito non lo si capisce bene, in effetti, visto che da noi si intitola semplicemente Interceptor – Il guerriero della strada. È una storia violenta, feroce, in cui tutto quel mondo postapocalittico ha un look così diverso. Qualcosa di talmente nuovo, e iconico, che di lì a poco lo avremmo rivisto ovunque: da Ken il Guerriero, ovviamente, ai Duran Duran di Wild Boys, fino ai Road Warriors/Legion of Doom del wrestling. C’è chiaramente un prima e un dopo Mad Max, nel modo in cui guardiamo a un certo tipo di futuro del dopobomba. Tutto merito di un signore australiano, oggi quasi ottantenne, che nella vita faceva il medico…
Non sono parole mie, ma di quel geniaccio di Hideo Kojima, padre della saga di Metal Gear, che nell’incontrare a Cannes George Miller era visibilmente emozionato. “La saga di Mad Max è la mia bibbia”, ha aggiunto il celebre game designer che dimostra sempre la metà degli anni che c’ha davvero. Non è il solo a pensarlo, evidentemente, per quanto influente è stata negli anni la serie di film dell’ex agente Max Rockatansky detto “il Pazzo”.
Nato nel Queensland, Australia, nel ’45, George Miller è figlio di emigranti greci, che hanno anglofonizzato all’arrivo sull’isola il loro cognome originale, Miliotis. Mentre studia medicina all’università, George invia a un concorso un corto realizzato con il fratello Chris, e lo vince. Si mette in testa di fare il regista, facendo pratica nei ritagli di tempo, mentre sbarca il lunario come medico di un pronto soccorso. Forma un sodalizio con un altro impallinato del grande schermo, Byron Kennedy, e nel ’79 esce il primo film scritto dai due e diretto da Miller. Si intitola Mad Max, anche se in Italia, come detto, gli danno il nome della V8 guidata dal protagonista: Interceptor.
Mad Max/Interceptor è un film molto diverso da Mad Max 2. Il mondo non è ancora crollato, anche se è a un passo dal farlo, soprattutto per la crisi del petrolio. Max Rockatansky fa parte della Main Force Patrol, forza di polizia che dà la caccia alle bande di motociclisti che imperversano sulle strade, dentro e fuori dalle città. È un film pieno di tizi dai nomi improbabili, “Nightrider” Montazano, Bubba Zanetti, “Toecutter”, con tutta la ferocia della fantascienza poco fanta e molto distopica di quegli anni: sadici, stupratori, belve che predano quanto resta del concetto di civiltà. Una nuova, crudelissima barbarie non a caso paragonata, da diversi critici dell’epoca, agli omicidi della Manson Family.
Sono del resto i tempi di Un ragazzo, un cane, due inseparabili amici (fuorviantissimo titolo nostrano di quel cazzotto nello stomaco che è il seminale A Boy and His Dog, 1975. Dichiarata fonte d’ispirazione per la saga di Mad Max). Sono gli sgoccioli di anni 70, e al cinema vanno ancora forte gli antieroi, prima che gli anni 80 imbottiscano queste storie di buoni e finali meno spietati. E a ricordarcelo ci pensa proprio il bastardissimo finale in cui Max – interpretato da un giovane Mel Gibson, newyorkese trapiantato in Australia da ragazzino, qui al suo secondo film – ammanetta Johnny a un veicolo ribaltato che sta per esplodere e gli lascia un seghetto per tagliare le manette o se, vuol fare davvero prima, amputarsi un piede se vuole salvarsi. Non avrà ovviamente il tempo di fare nessuna delle due cose, e ciao, Johnny.
Max e la sua Interceptor sono di nuovo sulla strada, proiettati stavolta verso il mito. Siamo nel 1981, sono passati solo due anni dal film precedente, il cui imprevisto successo ha permesso questa volta a Miller di avere un budget decente a disposizione. Per dire, nel primo film solo Mel Gibson aveva una vera giacca di pelle. Negli USA Mad Max è ancora poco noto, però, perciò il film viene ribattezzato in un primo momento solo The Road Warrior, che da noi diventa Interceptor – Il guerriero della strada.
Ma anche se Max è vestito come nel primo film, il mondo attorno a lui è profondamente mutato. La crisi del petrolio ha portato a una terza guerra mondiale, e la bomba ha fatto crollare quanto restava della civiltà. Per la storia, e per la caratterizzazione di Max nel film, Miller non si ispira soltanto – come Lucas e tanti altri – al saggio L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, ma guarda al pistolero di Clint Eastwood nella Trilogia del dollaro di Leone, nata a sua volta come remake non autorizzato de La sfida del samurai (Yojinbo) di Akira Kurosawa.
È l’archetipo dell’eroe silenzioso che si trova a dover salvare controvoglia un insediamento di poveracci vessati dai prepotenti, una lunga catena di figure memorabili che da Kurosawa ci porta a Leone e da Leone a Mad Max, e da Mad Max a Kenshiro di Ken il Guerriero e l’A-Team (la struttura di molti episodi della banda di Hannibal è, volutamente, la stessa), e poi giù fino al Din Djarin di The Mandalorian. Di suo, di personalissimo, Mad Max 2 ci mette l’estetica del dopobomba, dicevamo. La banda di Lord Humungus e Wez, per vestire la quale i costumisti del film setacciarono robivecchi, negozi di abiti usati, negozi di articoli sportivi (per l’idea semplice e assolutamente geniale delle spalline da football americano lasciate a vista) e un bel po’ di sexy shop. Un’estetica devastante, che verrà ripresa ovunque, a cominciare dalle bande post-atomiche di leccatori di asce fatti esplodere da dalla pranoterapia aggressiva di Ken della scuola di Hokuto.
È un film che puoi rivedere mille volte, il secondo Mad Max, perché, come Aliens, è un seguito semplicemente perfetto.
Il più classico dei passi indietro da terzo capitolo smorzaentusiasmo, Mad Max oltre la sfera del tuono, il primo capitolo dopo la morte del collega e amico di Miller, Byron Kennedy (portato via nell’83 da un incidente in elicottero), nonché l’unico della saga che Miller co-dirige insieme a un altro regista, George Ogilvie.
Il problema principale di Beyond Thunderdome è che sono due film in uno, e la seconda parte tira a fondo il buono della prima. Un buono che consiste nel voler spiegare cosa viene dopo la barbarie, da dove riparte la civiltà. E la risposta è: dalla cacca. La Bartertown su cui regna una magnifica Tina Turner nei panni di Aunty Entity è una città costruita letteralmente sul letame, un luogo in cui tutto funziona a metano, e la vita di un uomo vale meno di quella di un maiale. Dove il Thunderdome (“Two man enter, one man leaves!”) non è solo il solito deathmatch da fantascienza, ma il mezzo per dirimere le controversie, una sorta di damnatio ad ludum gladiatorium per due. Le genuine creste punk degli uomini di Wez, nei vent’anni trascorsi da quegli eventi, sono diventate nel frattempo dei copricapo per le uniformi indossate dagli uomini di Aunty.
Insomma, nei vuoti di potere, come nella realtà, nascono despoti e i mostri diventano istituzioni.
Poi c’è tutto il discorso della presa per il culo della televisione e dei suoi mantra recepiti e ripetuti ovinamente dai telespettatori, con la storia della ruota della (s)fortuna, del presentatore con il vocione impostato che sembra un manager del wrestling, del popolo di Bartertown che sembra costituito da tanti Homer Simpson ante-litteram. E ci sono tante idee visivamente azzeccate come l’accoppiata di Masterblaster, l’auto di Max trainata dai cammelli, lo stesso Thunderdome.
E fin lì, pur lontani dai picchi di Mad Max 2, il film funziona. Solo che poi succede quello che non deve succedere, e la pellicola diventa un incrocio tra I Goonies e lo Zecchino d’Oro. Ora, tutta la pallosissima parte della tribù dei bambini, nuova generazione dei sopravvissuti a un disastro aereo, avrebbe pure qualche spunto interessante, come il fatto che questi piccoli selvaggi hanno ovviamente una visione distorta del mondo pre-disastro, e hanno dato altri nomi e significati alle cose (vedi la scena del View-Master con le diapositive). Il problema è che lo spunto viene trascinato per le lunghissime e questo “nuovo approccio al vecchio sconosciuto” viene ripetuto fino a banalizzarlo, ad esempio con la scena del disco di francese.
La verità, insomma, è che dei ragazzi perduti di Peter Pan, qui, non frega niente a nessuno. Si è provato a seguire Spielberg e la Amblin sul loro terreno, trascinandosi dietro così facendo il meno adatto dei protagonisti del domani. Anche per gli incassi molto al di sotto di quelli del secondo film, sembra, comprensibilmente, la fine della saga.
Quando, nel 2015, Fury Road sorprende il mondo, portando dalla sua pubblico e critica con una pellicola che è un seguito perfetto soprattutto del secondo capitolo, nessuno se l’aspetta, grosso modo. Perché George Miller, dopo Thunderdome, si è messo a girare commedie. Anche di discreto successo, per carità, come Le streghe di Eastwick, Babe va in città, i due Happy Feet. Ma dopo maialini coraggiosi e pinguini che ballano il tip-tap, e soprattutto dopo due decenni, sarebbe stato in grado di riportare sulla scena un Max credibile, peraltro con un volto nuovo, il faccione di Tom Hardy?
La risposta la conoscete tutti.
Sgombrando il campo dalle domande con cui la gente ama trastullarsi al giorno d’oggi – è un remake? Un sequel? Un reboot? – Miller spiega che questa è semplicemente un’altra storia di Max il pazzo. Una storia che voleva raccontare da quasi vent’anni, e quando ha potuto finalmente farlo, ha dimostrato a tutti che quel “Che giornata fantastica” che campeggia sul poster di Fury Road riassume magnificamente quello che negli anni successivi avrebbe ricordato chiunque di quelle due ore trascorse in sala con gli occhi spalancati e il cuore al galoppo.
La strada, un inseguimento, motori da mille cavalli, e Mad Max al centro della baraonda, della cacofonia di carne e metallo, le uniche cose vive anche se non per molto: un’altra costante della saga, elemento presente in tutti e tre i primi film. Solo che qui quell’elemento diventa il cuore della storia, tutta incentrata su questa folle fuga. Si vive e soprattutto si muore sulla strada polverosa chiamata Fury Road, con un ritmo che rallenta ogni tanto solo per farti riprendere il fiato e portare sotto i riflettori una gamma di comprimari tra il lascivamente disgustoso e il follemente esagerato.
Il fuoco, le esplosioni, un destruction derby di sportellate, devastazione e proiettili, ma con una tenuta della tensione e dell’attenzione dello spettatore che Petardo Bay se la sogna la notte di San Silvestro. La ferocia dei primi due film, il raccapriccio alla Kenshiro dei poveri vessati, brutti di fame, radiazioni e cortocircuiti genetici. In mezzo al caos, nel cuore della tempesta, Max e Furiosa, Tom Hardy e Charlize Theron, scolpiti a martellate nel granito.
Bello, feroce, con una fotografia fantastica e un ritmo forsennato. Visionario, in tutti i sensi. Ben girato, ben interpretato, fresco come non ti aspetteresti mai da un quarto film che gioca in fondo con le stesse bocce dei suoi predecessori ed è frutto della capoccia – essenzialmente – sempre della stessa persona. E invece alla fine, se ci pensi, non poteva che essere così: solo George Miller poteva superare George Miller sul suo campetto di bocce.
Il che ci porta a oggi. Non sono per nulla in spasmodica attesa di vedere Furiosa: A Mad Max Saga, diremo. Mentendo. È solo un caso che in questo istante, mentre scrivo queste righe, io sappia che mancano esattamente 12 ore meno un minuto all’inizio dello spettacolo per cui ho il biglietto già da settimane, diremo. Mentendo di nuovo. Ho seguito, come tutti i fan della saga, con interesse le prime notizie, poi le prime foto, poi i trailer di questo prequel. Quando le prime recensioni e i sette minuti di applausi a Cannes mi hanno fatto leggerissimamente intuire che Miller ce l’aveva fatta un’altra volta, la scimmia sulle spalle è diventata un Mecha-Kong da 1.000 tonnellate.
Ne parliamo domani. Dodici ore meno quattro minuti.