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Le Deuxième Acte, come è il film Netflix che ha inaugurato il Festival di Cannes 2024

Pubblicato il 15 maggio 2024 di Andrea D'Addio

Quando stai sognando, crei connessioni molto strane tra cose casuali e persone a caso. A volte sogni qualcuno che hai incontrato 15 anni fa e non sai perché quella persona appaia nel tuo sogno tanti anni dopo. Sto solo cercando di trovare alcuni luoghi segreti nel cervello umano. Penso che i film tendano a essere troppo razionali a volte. Si pensa che tutto debba avere senso, essere logico. Io credo invece che la vita non sia logica e non sia sempre significativa.  Con i miei film cerco di creare una nuova logica che sembri come i sogni.

Quentin Dupieux è ormai riconosciuto come un regista dallo stile molto chiaro, surrealista, paradossale, tendenzialmente comico. In Italia nessuno dei suoi film è diventato mai particolarmente popolare, ma tra gli addetti ai lavori, soprattutto tra chi frequenta regolarmente i festival, i suoi lavori sono garanzia di svago all’intero di programmazioni spesso oltre modo impegnative. Le Deuxième Acte, suo ultimo film, ha avuto l’onore di aprire il Festival di Cannes 2024. E questo nonostante sia prodotto da Netflix, piattaforma che, più a parole, ma meno nei fatti, è invisa ai vertici del festival e sia uscito contemporaneamente nelle sale francesi, svuotando un parte del ruolo di una rassegna che dovrebbe preparare la visione in sala degli spettatori, mentre qui si trova a rincorrerla.

Le Deuxième Acte è sicuramente un lavoro da festival. Un film che parla di cinema in maniera satirica, una storia che storia non è se non intesa come frammenti di ironici ragionamenti sulla direzione che sta prendendo la settima arte. Quattro attori si trovano in un’imprecisata località della campagna francese a mettere in scena una bislacca commedia romantica. I dialoghi sono piuttosto sempliciotti, lo ammettono loro stessi subito dopo averli enunciati.  Il confine tra ciò che c’è nel presunto copione e quello che ne pensano gli interpreti se esiste, è molto labile. Si percepisce che c’è qualcosa di strano in tutta la situazione. Quel qualcosa diventa chiaro nella seconda parte del film: a scrivere la sceneggiatura, seguendo i famosi “algoritmi”, è stata l’intelligenza artificiale. Non solo. Anche a dirigere c’è l’ormai omnipresente AI. Gli attori devono rivolgersi a lei per capire se stanno andando nella direzione giusta.

All’interno di questa soffice struttura portante si inseriscono ritratti paradossali e punzecchiature allo stato del cinema attuale: dalle esagerazioni della cancel culture all’ipocrita impegno politico, messo da parte quando si tratta di fare carriera, degli artisti. Il quadro che ne esce è coerente, ma incapace di graffiare fino in fondo. Non c’è un tema, se non forse l’AI, che Dupieux si preoccupa di scavare e mettere in ridicolo oltre il tempo di una (lunga) scena fino alle dissacrante battuta finale. La decisione di ambientare tutto il film in anonimi esterni così come le lunghe carrellate che evitano il continuo ricorso al montaggio, se da una parte mettono in risalto i dialoghi dall’altro danno la percezione di un film poco curato nella messa in scena, un piccolo e breve (solo 75 minuti) divertissement che parla ad un pubblico a cui basta qualche idea ben assestata e un cast di star che si prende in giro (Léa Seydoux, Vincent Lindon e Louis Garrel) per sentirsi soddisfatto. Che sia perché non ha pagato il biglietto perché ha un pass da festival o perché si trova a casa, e Netflix lo paga a prescindere, cambia poco.