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Il gusto delle cose, la recensione del film di Trần Anh Hùng

Pubblicato il 10 maggio 2024 di Lorenzo Pedrazzi

È ancora la cucina, come ai tempi de Il profumo della papaya verde, a catturare lo sguardo di Trần Anh Hùng. Il regista vietnamita, trasferitosi in Francia prima della caduta di Saigon, non ha mai dimenticato le sue radici culturali, che anzi sono al centro dei suoi primi tre lungometraggi (compreso Cyclo, Leone d’Oro a Venezia nel 1995). Di fatto, Il gusto delle cose è solo il suo secondo film in lingua francese, nonché il secondo ambientato in Francia. Anche qui, però, riecheggia quell’idea di cura che già caratterizzava Il profumo della papaya verde, e che si esprime tra le mura domestiche attraverso la preparazione del cibo.

Il rinomato chef Dodin Bouffant (Benoît Magimel) sa bene cosa significa curare ogni dettaglio nei suoi piatti. Siamo nella Francia del 1889, e Dodin – soprannominato “il Napoleone delle arti culinarie” – vive e lavora in una tenuta di campagna, affiancato dalla sua formidabile cuoca Eugénie (Juliette Binoche). I due hanno una relazione, ma dormono in camere separate, ed Eugénie ha sempre rifiutato le proposte di matrimonio del suo amante. Oltre che sul letto della cuoca, dove spesso Dodin viene accolto a tarda sera, il loro amore si esprime in cucina, preparando piatti elaborati e raffinatissimi per gli amici dello chef. A dar loro una mano ci sono la giovane assistente Violette (Galatea Bellugi) e la nipotina di quest’ultima, Pauline (Bonnie Chagneau-Ravoire), bambina dotata di uno straordinario talento per i sapori. Purtroppo Eugénie ha una malattia che i medici non riescono a diagnosticare, e che le causa svenimenti improvvisi. Succede allora che, mentre la sua amata cuoca è costretta a letto, Dodin se ne prende cura nel modo che conosce meglio: cucinando per lei.

L’alta cucina non come fenomeno elitario, ma come accudimento. Fin dal principio, con la lunga preparazione del pasto per gli amici, Il gusto delle cose mette in scena una cura che si traduce nella dolcezza dei gesti, nell’attenzione per ogni singolo passaggio, nella naturalezza degli ingredienti e nell’importanza della condivisione. Tutti consumano gli eccezionali piatti di Dodin ed Eugénie, dagli ospiti alla servitù, nessuno escluso; e se la cuoca non mangia con Dodin e i suoi amici, è solo perché non vuole farlo: preferisce l’intimità della sua cucina. L’arte culinaria si esprime così nel modo più affettuoso, ovvero come un’estensione dell’amore per il prossimo. Una manifestazione preziosa e concreta – quindi non fine a sé stessa – dei sentimenti che ci legano gli uni agli altri.

Il personaggio di Juliette Binoche ne è l’emblema. Spirito indipendente, ma sempre disposta ad accogliere l’altro, Eugénie non vuole essere la moglie di nessuno: è in virtù della sua arte che desidera essere riconosciuta, non attraverso il rapporto con un uomo (che pure ama). Così, Il gusto delle cose dimostra di saper tratteggiare l’amore senza la retorica del possesso, ma celebrando invece la pienezza dell’individuo in sé stesso, come persona autonoma. Se Dodin ha bisogno di sentirsi completo nel rapporto con una compagna, Eugénie è invece una donna già ampiamente risolta; è felice di lavorare con un genio (per quanto lei stessa abbia capacità fuori dal comune), ma senza l’esigenza di formalizzare il loro legame. Non a caso, è proprio in cucina che la sensualità tocca il suo apice. Il contatto con i cibi, la sapienza nel maneggiarli (le coreografie sono dello chef stellato Pierre Gagnaire), lo sfaldarsi dell’omelette tagliata dal cucchiaio: è tutto un gioco di sensi, per stimolarli e soddisfarli. Nell’ormai famosa transizione dall’inquadratura di una pera sciroppata al corpo nudo di Eugénie, con quella coincidenza di forme accarezzate dalla luce, c’è tutta la carica erotica di un preliminare amoroso.

Il merito è ovviamente della regia di Trần Anh Hùng, elegantissima nei suoi piani sequenza che abbracciano la scena in campo totale, soprattutto nella taverna dove si svolgono alcuni momenti chiave del film: memorabile l’inquadratura di Dodin in profondità di campo, illuminato da un raggio di sole caravaggesco che penetra dalla finestra. La fotografia di Jonathan Ricquebourg avvolge ogni cosa nella luce dorata dell’estate, addolcendo le superfici con una nota di calore: d’altra parte, l’estate è la stagione prediletta della memoria, quella dei ricordi malinconici filtrati dalla nostalgia. Il gusto delle cose, in tal senso, è come un lampo mnemonico ispirato da un profumo repentino, o da un sapore antico che non sentivamo da lungo tempo.