WRRROOOOM! SBRAAAAANG! AMMIRATEMI! VERSO IL VALHALLA!
Fammi indovinare, mio immaginario amico, oggi vuoi parlare della saga di Mad Max, giusto?
Da cosa lo hai capito?
Dal fatto che ti sei spruzzato in faccia tutta la mia bomboletta di deodorante…
Non è vernice cromata?
Direi di no. Ma almeno, adesso, hai un buon profumo.
Dai, iniziamo, dobbiamo andare a tutto gas.
Come vuoi. Ma partiamo dall’inizio, dai primi anni settanta, dall’Australia, da Sidney e dalle ambulanze.
Ambulanze?
Sì, prima di diventare un regista, George Miller, uno dei padri di Mad Max e il regista di tutte le pellicole dedicate al personaggio e al suo mondo, guidava ambulanze e questo ha avuto un’importanza enorme nel concepimento della saga. A quanto pare, Miller è sempre stati molto impressionato dai sinistri della strada (tre suoi giovani amici erano morti proprio in questa maniera in tre diversi incidenti) e la sua esperienza sulle ambulanze gli fortificò l’idea che le desolate strisce di asfalto che tagliavano l’outback australiano, fossero un luogo violento dove non esistesse nessun dio, a parte la velocità e il rombo dei motori a otto cilindri.
Comunque sia, in quel periodo George Miller, oltre che guidare ambulanze, ha la passione per il cinema, che condivide con un amico della scuola, Byron Kennedy e va in sala quasi ogni giorno. I due, pur essendo praticamente autodidatti, passano tantissimo tempo a discutere delle strutture narrative ricorrenti dei western e dei film di explotation che in sala stanno iniziando a dilagare.
Sono particolarmente attratti dalla violenza visiva e realizzano un corto, Violence in the Cinema, Part 1, proprio sul tema. Quest’opera dà un primo, piccolo, assaggio del successo alla coppia (venendo molto apprezzato a vari festival dove viene presentato) e i due decidono di realizzare un vero e proprio film. Ma visto che Miller vuole fare il regista e Kennedy vuole diventare un produttore, quello che gli manca è uno sceneggiatore. Che, a quanto pare, sono merce rara in Australia in quegli anni. Quindi, fanno una semplice riflessione: i migliori sceneggiatori americani del periodo hanno tutti un passato da giornalisti, quindi, basta assumere un giornalista australiano e metterlo a scrivere un film, anche se non lo ha mai fatto prima.
Non sembra un’idea tanto logica…
Ehi, sono australiani. Da loro l’acqua gira al contrario e anche l’animale più innocuo ti uccide. Non farti troppe domande. Comunque sia, Miller e Kennedy assumono un tale James McCausland, che non ha mai scritto un film prima e che non ha idea di come sia fatto uno script. McCausland, inoltre, ha come base da cui partire, una sola pagina di appunti che gli ha dato Miller…
Una pagina?!
A quanto pare. Ma una pagina importante perché contiene tutti gli elementi chiave. Miller ha in mente una sorta di film muto con i suoni, una versione iperviolenta delle pellicole di Buster Keaton, un puro film di movimento dove la trama deve essere utile a portare a schermo le sue idee dinamiche. Tutta la storia e i dialoghi, insomma, devono essere costruiti per servire i momenti action che il regista ha in mente. Inoltre, bisogna trovare un modo per aggirare i notevoli problemi di budget a cui sarebbero andati incontro e che richiedevano un’ambientazione spartana ed essenziale. C’era poi il tema della crisi del petrolio che in quegli anni aveva colpito molto duramente l’Australia e che Miller voleva inserire in qualche maniera nella pellicola e, in ultima istanza, c’era Stone, un documentario sui biker australiani che a Miller era piaciuto molto e che doveva essere tenuto in conto come fonte ispirativa.
Nacque così l’idea di un mondo futuristico e desolato, dove la società è allo sbando, bande di motociclisti spadroneggiano e in cui tutto succede sulla strada, ad alta velocità.
Una distopia post-nucleare…
No.
Come no?
Il primo Mad Max (che da noi arrivò con il titolo di Interceptor) non è ambientato dopo l’apocalissi atomica ma poco prima. Ma su questo ci torniamo dopo, ok? Stai correndo troppo.
Te l’ho detto che oggi voglio essere veloce!
Non sei il Nightrider. Rallenta che la strada è ancora lunga. Il mondo creato da Miller, Kennedy e McCausland è anomalo: il sistema si sta disgregando ma non è ancora disgregato: c’è ancora la polizia (più o meno), ci sono ancora le persone normali, le famiglie, il lavoro e via dicendo. Solo che tutto sta andando in pezzi e i pazzi stanno prendendo il sopravvento sul mondo. I punk che leccano i coltelli e che combattono per la benzina, non fanno ancora parte dell’immaginario visivo o narrativo della saga. L’ambientazione anomala è largamente frutto dei limiti produttivi ma, proprio per questo, risulta originale ancora oggi. Comunque sia, una volta terminato lo script, Miller e Kennedy devono trovare un modo per girarlo. Mettono insieme un budget estremamente risicato (tra i trecento e i quattrocentomila dollari australiani), del tutto inadeguato per le idee visive di Miller, gli inseguimenti, gli incidenti d’auto e le esplosioni, e si mettono a cercare un attore protagonista, preferibilmente americano, perché per Miller quella è la scelta più furba, in modo da rendere la pellicola appetibile anche all’estero. Non lo trovano. Nessun attore statunitense, nemmeno di terza o quarta fascia, vuole andare fino in Australia per girare un film diretto da un tipo che guida ambulanze, scritto da un giornalista che non sa come è fatta una sceneggiatura e prodotto da un ragazzino.
Ma trovano Mel Gibson!
No, trovano James Healey, un giovane attore australiano che ha come unica nota importante della sua scheda wiki la seguente frase: gli venne offerta la parte di Max Rockatansky ma la rifiutò perché pensava che lo script fosse stupido.
A quel punto trovano Gibson!
Neanche. In quegli anni, Gibson è un giovanissimo studente al National Institute of Dramatic Arts e condivide la stanza con il suo amico, Steve Bisley. È Steve Bisley che viene chiamato per il provino di Max Rockatansky, Gibson lo accompagna.
Ma Miller lo nota e lo prende per il ruolo protagonista!
No. Gibson è reduce da una rissa il giorno in cui accompagna Bisley al provino e il suo volto è pieno di lividi. Viene scritturato per interpretare uno dei motociclisti assassini. Quando però, alcune settimane dopo, va a fare la prova costumi per la parte e non ha più segni in faccia, tutti notano il suo carisma e gli assegnano il ruolo principale. O, almeno, questo dice la leggenda. Ci sono varie versioni della storia ma questa è quella più emozionante.
E Steve Bisley che fina fa?
Gli viene data la parte di Goose, lo sfortunato amico di Max.
E poi che succede?
Iniziano, più o meno, le riprese. Sono previste dieci settimane, tra furti, incidenti motociclistici e inseguimenti con la polizia, diventano dodici.
In che senso “furti, incidenti motociclistici e inseguimenti con la polizia”?
Che Mad Max, a causa dei limiti di budget, viene girato come un “guerilla movie”: una troupe ridotta all’osso, props di scena spesso rubati, zero permessi per girare, zero controlli di sicurezza sul set e una banda di veri biker arruolati per le riprese. Insomma, in situazioni come queste, gli imprevisti capitano. Ma gli aneddoti sulla lavorazione del film sono davvero troppi e troppo assurdi e meriterebbero una chiacchierata a parte. Ti basti sapere che le riprese del film vengono rocambolescamente terminate, che il montaggio e la post-produzione richiedono quattro mesi e che la pellicola esce nelle sale australiane distribuita dalla Roadshow Film (oggi Village Roadshow Pictures). A casa sua, Mad Max incassa cinque milioni di dollari australiani. La Warner Bros. lo compra per una distribuzione internazionale, lo ridoppia con attori americani e lo lancia in tutto il mondo. La pellicola diventa il film con il miglior rapporto tra il suo costo e il suo guadagno e tale resterà fino all’uscita di The Blair Witch Project.
Mel Gibson si fa notare da Hollywood e lo stesso succede a George Miller che, assieme a Peter Weir, Russell Mulcahy e molti altri, guida la “Australian New Wave”, l’ondata di giovani registi australiani che tra gli anni settanta e ottanta, invaderanno il cinema statunitense.
È il 1979. Due anni, dopo, esce il seguito: Mad Max 2 (Interceptor – Il guerriero della strada – da noi), e le cose impazziscono completamente.
In che senso?
Che il primo Mad Max era un ottimo film, con un grande regista, un attore di raro magnetismo e una ambientazione stilizzata e molto originale, ma era pure – e chiaramente – un film molto piccolo per budget e molto ruvido per approccio. Il secondo, no. Il secondo è un film con cinque milioni di dollari australiani di budget, due veri sceneggiatori (Terry Hayes e Brian Hannant, oltre a Miller stesso), un vero direttore della fotografia (Dean Semler), un vero reparto costumi e scenografie e stunt pensati e messi in pratica da professionisti. Mad Max 2 è un film vero e grosso (per le produzioni australiane), con forti aspirazioni commerciali. Ma non è solo questo, è anche la realizzazione della visione di Miller che, libero dai limiti produttivi, può mettere in scena davvero il mondo che aveva in mente: non più un universo sulla soglia dell’apocalisse ma un mondo post-apocalittico, popolato di bande motorizzate di punk assetati di sangue e benzina.
Un classico.
Mica tanto. All’epoca, non esisteva alcun universo così. È Miller che lo crea e lo impone nell’immaginario collettivo. Oggi quell’immaginario è stato così intimizzato e così tanto ripresa da altre opere, che pare assodato e da sempre presente nella nostra coscienza comune ma prima del 1981, non esisteva, in nessuna forma. Lo inventa Miller e Miller soltanto e centinaia di film, libri, fumetti e videogiochi seguenti, possono solo mettersi in scia o tentare qualche variazione, più o meno ispirata, sul tema. Non si salva nessuno, a nessun livello, non Buronson e Tetsuo Hara con Kenshiro, non i vari svilupatori di Fallout, nemmeno Cormac McCarthy con La strada può dirsi esente dall’eredità lasciata da George Miller. L’importanza seminale del secondo Mad Max è pari a quella di un Jules Verne, un H.G. Wells, un George Orwell, un H.P. Lovecraft o un Franz Kafka per come cambiano radicalmente lo scenario del nostro immaginario e ci si insediano, per non andarsene mai più. A margine, il secondo capitolo di Mad Max è anche un film magnifico in cui Miller riesce a riversare le sue passioni per il western (da Per un pugno di dollari a Il massacro di Fort Alamo per terminare poi, ovviamente, con Ombre Rosse), mescolandole con della roba totalmente sua (le riprese ardite, il montaggio forsennato, il senso per la velocità, l’estetica), creando qualcosa che, ancora oggi, risulta fresco, potentissimo e moderno.
Un altro successo?
In Australia il film doppia gli incassi del primo, ma essendo costato sensibilmente di più, guadagna meno. Negli USA la pellicola va discretamente, pur essendo distribuita con un titolo diverso visto che, secondo il distributore, il primo film non era abbastanza noto da poter giustificare il lancio nazionale di un film con un “2” nel titolo. Nelle sale statunitensi ed europee il film va abbastanza bene ma è sul mercato del via cavo e, soprattutto, del noleggio delle videocassette, che trova il suo vero successo, diventano un cult. Il terzo capitolo viene messo in cantiere mentre Gibson assume la statura di divo Hollywoodiano e George Miller viene cooptato come regista a cui affidare progetti di alto profilo, come uno degli episodi dell’adattamento cinematografico de Ai confini della realtà (assieme a lui, per farvi capire la considerazione di cui gode, Steve Spielberg, John Landis e Joe Dante). Il suo segmento, Terrore ad alta quota, è riconosciuto unanimemente come il migliore della pellicola.
E siamo al terzo film…
Mad Max oltre la sfera del tuono. La prima pellicola che in Italia viene distribuita con un titolo simile a quello originale. Esce nel 1985, quattro anni dopo il capitolo precedente, ha un budget di dieci milioni di dollari (americani, non australiani) ed è il primo film di Mad Max senza Byron Kennedy alla produzione. Il giovane produttore, purtroppo, è morto nello schianto di un elicottero che pilotava. La sua assenza, influenza molto il destino del film che diventa largamente preda degli studios americani, omologandosi agli stilemi e alle logiche dell’epoca.
È brutto?
No, ma fino a qualche giorno fa, ti avrei detto che è il più debole della serie.
Come mai?
Sostanzialmente, si tratta quasi di un remake del secondo, ripresentandone molte situazioni e personaggi similari, ma con i soldi da grande blockbuster americano, meno violenza e molti più buoni sentimenti. È un film che ha un ritmo meno fluido e implacabile dei precedenti ed è un poco appesantito da una estetica da video di MTV, che in quegli anni era di gran voga (va detto che molti video che passavano in quegli anni su MTV, rubavano a piene mani da Mad Max, basti pensare a Wild Boys dei Duran Duran o a una larga parte dell’estetica dei Motley Crue). Per sottolineare ancor di più la cosa, l’attrice coprotagonista della pellicola è Tina Turner, che compone anche due bellissimi pezzi per il film di cui uno diventa una hit (We Don’t Need Another Hero). Detto questo, per quanto annacquato, il tocco di Miller c’è e si vede, specie nel primo e (soprattutto) nel terzo atto del film.
Come viene accolto?
Benino ma non benissimo. I problemi sono molti: si è perso l’effetto novità, troppe altre opere hanno sfruttato l’immaginario di Miller rendendolo molto logoro, il film è, in effetti, meno buono. Fatto sta che tanto la critica quanto il pubblico, restano tiepidi e che il film viene ricordato più per il pezzo di Tina Turner che per altro. Per George Miller sembra arrivato il momento di voltare pagina. Prova a entrare nel giro grosso di Hollywood con Le streghe di Eastwick, cerca la strada degli Oscar con L’olio di Lorenzo, ma tutti e due i tentativi non vanno pienamente a segno. Nel 1998, con una carriera al palo, finisce a dirigere (splendidamente) Babe va in città, il sequel di Babe, maialino coraggioso. Ma va male anche quello. Miller però da quella esperienza ne esce bene: fa una grossa esperienza con gli effetti speciali in digitale e capisce che il suo stile dinamico di regia si presta bene per i film per bambini. Nasce così il progetto di Happy Feet, cartone animato in digitale a base di allegri pinguini canterini e danzerini, che si rivela un successo clamoroso da trecento milioni al botteghino (a fronte dei cento di budget) e che genera un sequel (sempre scritto, diretto e prodotto da Miller). Siamo arrivati al 2011 e Miller, forte degli ultimi risultati, decide di riprendere in mano la saga di Mad Max con uno strano prequel-sequel-reboot: Fury Road.
Senza Gibson…
Senza Gibson, che nel tempo trascorso tra il terzo Mad Max e questo, è diventato un dio di Hollywood come attore prima e come regista poi ma è pure mezzo impazzito, diventando una persona molto poco desiderata dagli studios, uno da tenere lontano da un film da 150 milioni di dollari di produzione. Inoltre, è anche invecchiato e non va bene per l’idea che Miller ha in testa.
Al suo posto viene scelto (non senza il solito numero di polemiche per il recast), Tom Hardy, affiancato da un personaggio nuovo, Furiosa, interpretata da Charlize Theron. Il film viene concepito, scritto e messo in scena senza alcun compromesso. Miller porta la sua consueta visione di cinema di movimento a un nuovo livello, innalzando la soglia di quanto sia possibile portare a schermo senza l’ausilio e i trucchi degli effetti digitali (che comunque ci sono, per quanto splendidamente mascherati). Fury Road è una versione a trecento all’ora di Ombre Rosse, una reinvenzione della saga e un film che ridefinisce il concetto di “show, don’t tell”. In termini semplici, un capolavoro eterno della storia del cinema.
Ti è piaciuto poco, insomma…
C’è L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière, del 1896, e c’è Fury Road, del 2015. In mezzo, migliaia e migliaia di film fermi.
Penso che tu stia lievemente esagerando.
Magari giusto un pelo ma sono assolutamente convinto che Fury Road sia un film che incarna la natura stessa del suo linguaggio in maniera perfetta e senza eguali.
E ora è arrivato Furiosa.
Sì. Un prequel di Fury Road, con Anya Taylor-Joy al posto di Charlize Theron. Di cui io ho deciso, per il mio benessere mentale e il vostro benessere fisico, di non parlare.
Cosa?! Come mai? È brutto?
Stano alla critica internazionale, no, anzi, ne parlano come di un ennesimo capolavoro di un maestro. Diciamo che, per quello che mi riguarda, Miller non si è mosso nella direzione che speravo, che il film racconta quello che Fury Road mostrava così bene e che ho delle forti perplessità sulla scrittura e sulla struttura narrativa, sul ritmo, sulle interpretazioni e sulla regia.
Ma, sai che c’é? Il film sta vendendo accolto in un clima di festa e giubilo, io sono felice che alla gente e alla critica piaccia e non ho la minima voglia di fare il guastafeste. Quindi, mi limito a dire che probabilmente non l’ho capito e aspetto speranzoso il prossimo film della saga.
Ne fanno un altro?
Così ha detto Miller…
Ma per quanto vuole continuare?
Fino a quando avrà benzina nel serbatoio, direi.