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Fantastic Machine non ce la racconta giusta

Pubblicato il 06 maggio 2024 di Lorenzo Pedrazzi

È curioso che anche il più celebre video-saggio della storia del cinema, F for Fake di Orson Welles, sia incentrato sul tema della contraffazione. D’altra parte, manipolare le immagini è la forma di raggiro più diffusa nella società dello spettacolo, ma la narrazione visiva ha il potere di smascherare l’inganno: nel video-saggio, l’immagine stessa diviene infatti uno strumento di indagine, analisi e svelamento, mettendo in luce ogni suo trucco. Fantastic Machine di Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck lavora proprio in tal modo, compiendo un percorso storico che parte dall’invenzione della fotografia e arriva fino alla moltiplicazione inusitata dei sistemi di ripresa, tipica del nostro presente. Più che un documentario, insomma, è un rarissimo caso di video-saggio che trova una distribuzione nelle sale, composto da materiali di archivio selezionati e riassemblati con arguzia.

Dal momento in cui Joseph Nicéphore Niépce riuscì per la prima volta a fissare una fotografia in modo permanente (con la celebre Vista dalla finestra a Le Gras, 1826), l’umanità si è ritrovata fra le mani una “macchina meravigliosa” dotata di enormi potenzialità. Ma come l’ha usata nel corso dei decenni? In che modo ne ha sfruttato le formidabili risorse? È questo l’interrogativo che Danielson e Van Aertryck si pongono nel loro lungometraggio, mostrando come la riproduzione delle immagini sia stata impiegata progressivamente per mistificare la realtà, manovrare il consenso, distrarre l’opinione pubblica e mettere in scena una versione edulcorata (quando non fittizia) di noi stessi.

L’operazione compiuta dai registi è affascinante, senza dubbio. Concatenando materiali eterogenei, Fantastic Machine usa il narratore extradiegetico – Elio Germano nell’edizione italiana – per guidare il pubblico attraverso una riflessione dai toni brillanti, lasciando però che siano le immagini a parlare. Il narratore è infatti una presenza discreta, e preferisce fare un passo indietro per consentire ai filmati di esprimere autonomamente il proprio senso, di “spiegarsi” da soli. In un film sul potere comunicativo delle immagini, questa soluzione ha il pregio di far coincidere contenitore e contenuto.

Il punto, però, è che spesso imbocca la via più facile. Se alcuni materiali sono davvero sorprendenti e rivelatori (come il backstage di un video dello Stato Islamico), molti altri sono fin troppo scontati: chiunque abbia un minimo di confidenza con i social network, o abbia fatto una maratona di Vine, TikTok e YouTube, li conosce a memoria. Al di fuori della ricerca storica, Danielson e Van Aertryck pescano a piene mani dall’universo dei video virali, ricontestualizzandoli in un discorso sensato ma prevedibile, più vicino alle ovvietà di The Social Dilemma che a una meditazione davvero approfondita. Di fatto, l’ironia di Fantastic Machine diventa la sua condanna: troppo occupato a farci sorridere con i suoi accostamenti di montaggio (o con video che abbiamo visto milioni di volte su internet), il film è privo di un’angolazione politica, e non risale alle origini “sistemiche” del nostro uso della fotografia.

Piuttosto, si limita a gettare uno sguardo sornione sui tranelli della società dell’immagine, setacciando – almeno a tratti – la verità oltre i confini dell’inquadratura. Nelle sue rivelazioni c’è però ben poco di sorprendente, e forse non è un caso che Ruben Östlund sia coinvolto come produttore. Anche i film più recenti del cineasta svedese, altrettanto ironici e sornioni, tendono soltanto a confermare le idee e i pregiudizi del pubblico, senza offrire una nuova consapevolezza sulle storture del mondo. È bello che Fantastic Machine voglia spingerci a riflettere con la nostra testa, ma il suo contributo non è abbastanza significativo, e finisce solo per lasciarci con un senso di incompiutezza.