Se esiste un limite alle botte che Ryan Gosling e le sue controfigure possono prendere in un solo film, The Fall Guy probabilmente l’ha superato. Li vediamo saltare attraverso porte e finestre, cappottarsi con l’automobile, cadere da grandi altezze, andare a fuoco, combattere su veicoli in corsa, attaccati da armi di ogni genere. Di fatto, nessun’altra produzione recente ha dimostrato in modo tanto cristallino l’importanza degli stuntman per l’industria hollywoodiana… e quale modo migliore per omaggiare il loro lavoro, se non farli saltare in aria il più possibile?
Partendo dalla vecchia serie tv Professione pericolo, il regista David Leitch e lo sceneggiatore Drew Pearce intercettano le preoccupazioni che gravano sulle maestranze del cinema, cavalcandone persino (volenti o nolenti) le battaglie sindacali degli ultimi mesi. D’altra parte, non è difficile capire su quale fronte si schieri lo stesso Leitch, ex stuntman che ha debuttato alla regia con il primo John Wick, imponendosi presto come il cineasta d’azione più desiderato di Hollywood. The Fall Guy sceglie la prospettiva dei lavoratori invisibili, quelli che non finiscono sulle locandine, e che restano anonimi per la gran parte del pubblico: Colt Seavers (Gosling) è uno di essi, la controfigura del borioso Tom Ryder (Aaron Taylor-Johnson), star d’azione fra le più grandi del pianeta. Colt è innamorato dell’operatrice Judy Moreno (Emily Blunt), ma si allontana da lei dopo un incidente sul set, ritirandosi dalla professione. Quando la produttrice Gail Meyer (Hannah Waddingham) gli offre di lavorare a un blockbuster di fantascienza in Australia, Colt inizialmente rifiuta, salvo ripensarci non appena scopre che il film è diretto proprio da Judy. Mentre cerca di ricostruire un legame con la sua amata, però, lo stuntman deve anche indagare sulla misteriosa scomparsa di Ryder, e finisce coinvolto in un bizzarro intrigo.
Chi ha visto The Nice Guys sa bene che Ryan Gosling dà il meglio di sé proprio in questi ruoli. Faccia da schiaffi, sempre in bilico tra seduzione e autoparodia, l’attore canadese incarna un maschile che si mette in ridicolo e ama giocare con la sua muscolarità. Gosling è consapevole di sé stesso: sa bene per quanto tempo l’inquadratura può reggere l’intensità del suo sguardo languido, senza prendersi sul serio. E Leitch si diverte a cacciarlo nelle situazioni più improbabili, tra botte lisergiche in completo fluo e scontri con attrezzature di scena. The Fall Guy è il suo trionfo definitivo non solo come attore comico, ma come corpo da commedia slapstick, capace di rendersi credibile persino nei momenti d’azione più parossistici (anche grazie – è proprio il caso di ricordarlo – alle sue controfigure: Logan Holladay per le scene di guida; Justin Eaton per i combattimenti; Ben Jenkin per il fuoco e il parkour; Troy Brown per le cadute da grandi altezze).
Ciò che ne deriva è un blockbuster spassoso e insolito, dove la mascolinità dell’eroe ammette i propri limiti, le proprie fragilità, e non si fa problemi a piangere. Pearce, in tal senso, centra una sceneggiatura molto in linea con la sensibilità contemporanea, anche per la glorificazione della protagonista femminile – Emily Blunt sostiene di essersi ispirata a Greta Gerwig – nel suo ruolo di guida artistica. Ma The Fall Guy fa persino un discorso “di classe”, nel senso che colloca in primo piano le maestranze, le omaggia e ne celebra l’importanza. Non a caso, l’elementare intreccio narrativo esprime diffidenza nei confronti dei produttori (i grandi antagonisti degli scioperi nel 2023), e guarda con sospetto alle tecnologie che permettono di catturare e ricreare la fisionomia degli attori. Immagini utilizzate senza consenso e piazzisti che governano il cinema senza alcun talento creativo, ma pensando solo al marketing: ecco i nemici di cui diffidare, come ci hanno insegnato WGA e SAG-AFTRA l’anno scorso. The Fall Guy sintetizza questi conflitti in modo sensato, mai gratuito.
Più scontati sono i riferimenti metanarrativi – come tutto il discorso sul terzo atto – e il citazionismo diffuso, per quanto riescano a strappare qualche risata. Ciò che importa è però l’amore sincero per gli “ultimi” dell’industria cinematografica, i cascatori ammaccati, i tecnici dimenticati, le segretarie di edizione zelanti che tengono insieme la coerenza di un film. David Leitch ha il merito di far convivere virtuosismi registici (notevole il piano sequenza iniziale) e tenerezze caratteriali, azione roboante e pause romantiche. Il risultato è la screwball comedy con più esplosioni di sempre: non è cosa da poco.