Cinema roberto recchioni Recensioni
Il mio amico Giulio ha una quarantina d’anni e, quando era un ragazzo, faceva Karate. Lo faceva a buon livello, era arrivato alla massima cintura e vinto qualche torneo regionale. Ma non era certo un campione o un esperto di arti marziali, tanto è vero che la sua vita è andata avanti, non ha intrapreso una carriera da atleta professionista e oggi è uno stimato commercialista.
Ogni tanto però, di Karate parla ancora e, con gli amici, accenna qualche mossa, ricordando i suoi anni “da campione”. Ora, di solito è questo che capita alle persone normali che praticano una qualche disciplina sportiva, o che strimpellano qualche strumento o giocano con pennelli e colori. Ma se sei un divo di Hollywwod, le cose possono andare diversamente e puoi fare sfogo a quella tua passione giovanile e diventare quello che non sei diventato, un vero campione. O, quantomeno, lo puoi diventare per finta, in quella meravigliosa illusione condivisa che si chiama cinema. Il leader indiscusso di questa pratica è Keanu Reeves, che si esercita nel Karate, nel Judo e nel Brazilian Jiu-Jitsu, sin dagli anni ottanta, sempre a livello amatoriale (esattamente come nella musica e con le moto, sue altre grandi passioni) ma che da Hollywood ci è stato sempre raccontato come un artista marziale a tutti gli effetti. Non lo è. È, invece, un fervido appassionato che si impegna molto e che ama fare film in cui può sembrare molto più esperto di quello che è davvero. Ma se andate a esaminare la sue prestazioni puramente atletiche in quelle pellicole dove le mette in mostra, vedrete che è lento e rigido e che, spesso, la regia deve inventarsi qualche trucco per compensare alle sue mancanze. Nulla di male, sia chiaro: Keanu Reeves non è un artista marziale prestato al cinema alla maniera di Bruce Lee, Chuck Norris, Jackie Chan, Jet Li e tanti altri, ma è un attore che cerca di fare arti marziali. E non se la cava neanche malissimo, dopotutto. Quantomeno, si impegna davvero molto e continua a migliorare, film dopo film, nonostante l’età che avanza.
Un discorso simile si potrebbe fare anche per il primo Patrick Swayze che, all’epoca del Duro del Road House, Hollywood cercava di venderci come “esperto di arti marziali”. Per carità, Swayze da giovane praticava il Wushu, il Taekwondo e l’Aikido, ma la sua vera formazione era quella di ballerino. E infatti, dopo il successo di Dirty Dancing (dove ballava molto bene), gli unici pugni che gli vedremo tirare da quel momento in poi, saranno quelli di una breve sequenza di combattimento in Point Break. Di nuovo, niente di male: gli attori recitano.
E veniamo a Dev Patel. Che è un attore britannico, nato e cresciuto a Londra (da genitori induisti, emigrati prima in Sud Africa e poi in Inghilterra), che a schermo interpreta quasi sempre personaggi indiani (il suo ruolo più famoso è come protagonista nel film di Danny Boyle, The Millionaire).
Dev Patel è anche un praticante di arti marziali (Taekwondo, nel suo caso). Bravo? Il suo ufficio stampa ci dice di sì e su Internet non è difficile trovare foto di lui da ragazzino, impegnato in qualche piccolo torneo. Di nuovo: è un agonista o un atleta? No, un attore. Un attore a cui le arti marziali piacciono e a cui piacciono, ancora di più, i film di arti marziali vecchia scuola, in stile Golden Harvest e Shaw Brothers, le pellicole con Gordon Liu e Bruce Lee degli anni settanta, per capirsi. Così, quando finalmente Dev Patel ha modo di costruire un film suo, che si scrive, dirige e interpreta, coglie la palla al balzo e dice: “Oh, se lo può fare Keanu Reeves, lo posso fare anche io!”. E sui nostri schermi arriva Monkey Man che è un film che, solo in apparenza, fa il verso a John Wick (peraltro, citato esplicitamente nella pellicola) ma che, in realtà, è più una riproposizione moderna di opere come Dalla Cina con furore, Cinque dita di violenza e la 36ª camera dello Shaolin.
La trama in breve: in un’India del tutto immaginaria, seguiremo la vendetta di un uomo contro gli arrembanti futuri leader del suo paese (che sono in totale tre: un politico nazionalista e razzista, un capo della polizia violento e stupratore e un santone corrotto), colpevoli di aver ucciso sua madre (e di aver reso la vita un’inferno a un un sacco di altra gente). Il giovane, ispirato e guidato dalla leggenda di Hanuman, simbolo di forza e coraggio, prima si guadagnerà da vivere in un fight club clandestino dove, notte dopo notte, indossando una maschera da scimmia, verrà picchiato a sangue da lottatori più famosi di lui in una infinita serie di incontri combinati. Dopo anni di rabbia repressa (e di tante mazzate prese e poche date), il ragazzo scoprirà un modo per infiltrarsi nell’enclave della città, dove si trovano i carnefici della madre, per portare a segno la sua vendetta. Le cose però non andranno come sperato e “Monkey Man” sarà costretto a fuggire e nascondersi. Aiutato da una comunità di paria, il ragazzo troverà una nuova forza dentro di sé e scoprirà che le sue mani sono molto più letali delle armi da fuoco.
E torniamo su Dev Patel che in questo film è un inglese che fa finta di essere un indiano e un attore che fa finta di essere un artista marziale.
La cosa gli riesce? Sì e no.
Partiamo dal primo punto: La rappresentazione dell’India fatta da Patel ha la stessa profondità e accuratezza dello sfondo di un videogioco di Street Fighter e la stessa delicatezza nel rappresentare stereotipi culturali ed etnici (se non conoscete Street Fighter sappiate che la serie non è nota per il suo approccio sofisticato). L’India di Patel è paese da operetta, monodimensionale e dominato da tre figurine di cattivi da cartone animato per bambini.
Uno scenario colorato, utile solo a mettere in scena una classica vicenda di soprusi e vendette. Largamente offensivo per chi l’India la conosce almeno un poco. Mettiamola così, The Millionaire di Boyle era un film che si appropriava culturalmente di qualcosa che non apparteneva al regista ma era, quantomeno, un film fatto con cura e attenzione. La rappresentazione di Boyle dell’India, per quanto inevitabilmente deformata dal punto di vista di un occidentale, si sforzava in ogni maniera di rendere omaggio a quel paese e al suo cinema. Dev Patel, pur essendo stato su set di quel film a lungo, dall’approccio di Boyle non mutua niente e ci restituisce un’India che è il corrispettivo della Russia nei film americani degli anni ottanta. È un grosso problema? Se Monkey Man non fosse un film di mazzate, lo sarebbe. Ma Monkey Man è un film di mazzate, quindi non lo è. Del resto, non è che la rappresentazione del Giappone o dell’Italia, nei film di Bruce Lee, fosse così raffinata, no? In termini semplici, Dev Patel sceglie l’India come scenario solo perché, come attore, ha tratti indiani. Se fosse stato di lontane origini calabresi, il film si sarebbe ambientato tra il Pollino e la Sila. E sarebbe stata la stessa identica cosa. Perché a Patel interessa solamente di girare un film di arti marziali vecchia scuola, dove i cattivi sono graniticamente spregevoli e il buono deve colpirli davvero molto forte per avere la meglio su di loro.
E veniamo alle cose importanti: le mazzate. Dunque, il film fa tesoro dell’esperienza della 87Eleven Production di Chad Stahelski (lui, sì, un vero artista marziale) e quindi tante soluzioni che Patel porta a schermo, sembrano uscire direttamente da John Wick, Atomica Bionda, Io sono nessuno e soci. Non è una cosa sbagliata perché questa è la nuova grammatica del “cinema di menare” (come direbbe Nanni Cobretti) e va benissimo inserirsi nel filone, senza pensare di reinventare la ruota. Anzi, Patel troppo ci mette del suo, alzando il livello di violenza e di gore (e qui ritorna la sua passione per il cinema dei fratelli Shaw). Quello che manca, purtroppo, è proprio lui, che sembra incapace di legare una sequenza di colpi per più di tre scambi consecutivi e che, come regista, è costretto a ricorrere a ogni trucchetto possibile per restituire dinamicità e potenza agli scontri. In sostanza, ricorre al trucco di Christopher Nolan per girare le scene di combattimento corpo a corpo (che sono l’unico punto debole di un altresì straordinario regista), la butta in caciara (tradotto dal romano: fa confusione) con il montaggio, per raccontare senza mostrare. E, a dirla tutta, gli viene anche bene perché il montaggio del film (di Dávid Jancs e Tim Murrell) fa funzionare ogni sequenza molto bene. Solo che, se mi fai un film così esplicitamente dedicato alle arti marziali, io appassionato, poi mi aspetto di vederle le arti marziali, non di guardare un bel saggio sulla magia del cinema che mi fa vivere cose che poi, a schermo, non ci sono realmente.
Ora, questo inficia la qualità del film? Difficile da dire. Perché, in realtà, Monkey Man fila che è una bellezza. Il ritmo è sostenuto, molte sequenze sono riuscitissime, la colonna sonora è fantastica, la fotografia (un poco schizofrenica nell’alternanza di stili) molto curata e lo script, per quanto non privo di varie sbavature, riesce anche a sorprendere quando va a toccare i temi LGBQT+ e dei paria di una società divisa in caste.
Il problema è, solamente, se cercate un vero film di arti marziali e non un semplice action. Perché, come action, Monkey Man è un film ben sopra la sufficienza. Come film di arti marziali puro, molto al di sotto.
Direi che, a questo punto, spetta a voi decidere come volete inquadrarlo.
A me, personalmente, è piaciuto.
Ma forse avrei preferito che Dev Patel capisse che vincere un torneo da ragazzino, non fa di lui Bruce Lee.