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Civil War, non c’è guerra senza fotografia

Pubblicato il 16 aprile 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Nel 1930, lo scrittore tedesco Ernst Jünger (“esteta della guerra”, come lo definisce Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri) mette in luce il legame tra guerra e fotografia, tra arma da fuoco e macchina fotografica. Non soltanto i due apparecchi usano la stessa tecnologia – uno per “localizzare con estrema precisione il nemico nel tempo e nello spazio”, l’altro per “conservare nei minimi dettagli i grandi eventi storici” – ma entrambi implicano l’atto di mirare a un bersaglio, o comunque a un soggetto: se però l’arma da fuoco toglie la vita, la fotografia invece la rende eterna, in un certo senso.

Anche Civil War ragiona su questa connessione, ed è forse una sorpresa per chiunque si aspettasse una maggiore centralità “politica” nel film di Alex Garland. Ma il regista inglese, che pure guarda alle polarizzazioni del nostro presente, è sempre stato il cantore di un sottile individualismo: i suoi eroi tendono spesso a chiudersi in loro stessi, fedeli alla propria scala di valori, in contrapposizione all’ambiente che li circonda. Non deve quindi stupire che i protagonisti di Civil War siano giornalisti e fotoreporter, convinti che il loro compito sia di offrire un resoconto oggettivo della realtà, e che spetti a qualcun altro il dovere di trarre conclusioni, ragionare, offrire giudizi. Lee Smith (Kirsten Dunst) è una grande fotografa specializzata in scenari bellici, e sta documentando la nuova guerra civile americana insieme al giornalista Joel (Wagner Moura). Mentre si trovano a New York City con il collega Sammy (Stephen McKinley Henderson), i due prendono sotto la propria ala un’aspirante fotoreporter, Jessie (Cailee Spaeny), e partono tutti insieme alla volta di Washington: le forze congiunte di Florida, Texas e California si preparano infatti ad assediare la capitale, dove il Presidente (Nick Offerman) è ancora barricato nella Casa Bianca.

Nonostante il titolo, la fantapolitica è solo marginale in Civil War. D’altra parte, cosa sappiamo di questo conflitto? La sceneggiatura di Garland è anti-didascalica, i personaggi dialogano tra loro in modo credibile, e gli unici riferimenti al quadro generale sono molto frammentari. Da alcune battute, possiamo dedurre che gli stati di Florida, Texas e California si siano ribellati a un Presidente autoritario, capace di sciogliere l’FBI e ordinare raid aerei sui cittadini statunitensi: un’estremizzazione dell’America trumpiana, insomma, neanche tanto marcata se pensiamo ai fatti di Capitol Hill. Eppure, tutto questo è soltanto un rumore di fondo. A Garland non interessa stuzzicare la morbosità apocalittica del pubblico, quanto suggerire una riflessione sul nostro modo di fruire le immagini. In Civil War, scattare una foto non è così diverso dall’atto di sparare: Lee e Jessie fotografano la morte nel suo farsi, ovvero “immortalano la morte”, per quanto suoni paradossale. La differenza rispetto ai contesti bellici abituali, però, è che stavolta lo fanno in casa propria, e allora s’innesca un cortocircuito fra la distanza della fotografia e la familiarità del contesto.

“Le vittime, i parenti afflitti, i consumatori di notizie – ognuno di essi ha una sua propria distanza o vicinanza dalla guerra” scrive Sontag. “Le rappresentazioni più franche dei conflitti, e dei corpi feriti da un disastro, hanno per oggetto chi ci appare straniero, e perciò ha meno possibilità di essere conosciuto. Nel caso di soggetti che ci toccano più da vicino, ci aspettiamo una maggiore discrezione da parte del fotografo”. Ecco, la messa in scena di un conflitto su suolo americano stravolge il rapporto occidentale con le immagini di guerra: per un cittadino statunitense, quelli non sono soltanto i suoi soldati, ma anche i suoi concittadini, le sue strade, i suoi palazzi e monumenti. Se è vero che “più un luogo è remoto o esotico, maggiori sono le possibilità di avere immagini frontali e a figura intera dei morti e dei moribondi”, la rappresentazione di una nuova guerra civile americana mette in crisi tutto questo: i morti e i moribondi non hanno più l’aspetto “esotico” di popolazioni lontane, in paesi dove – nella prospettiva occidentale – si sa che le cose “vanno così”, e ci sono sempre guerre, violenze, colpi di stato, massacri. Eppure, Garland mostra che anche nel “civilissimo” Primo Mondo basta rimuovere le vecchie certezze (politiche, istituzionali, sociali…) per scivolare nell’orrore. E il regista ha il merito di veicolare questo concetto tramite il linguaggio per immagini, non le parole: in Civil War, la barbarie umana sfocia infatti in una tensione affilatissima, con scene tra le più snervanti degli ultimi anni.

Se consideriamo anche la perizia con cui governa l’azione, Garland non dimentica di “fare cinema” mentre imbastisce un discorso su guerra e fotografia, oggettività giornalistica e diritto di cronaca. Il suo schietto cinismo è lo stesso dell’obiettivo fotografico, e forse lo avvicina più alla durezza di Full Metal Jacket che ad altri film bellico-giornalistici come Un anno vissuto pericolosamente e Benvenuti a Sarajevo (o, se è per questo, alla satira de La seconda guerra civile americana). Al contrario di Joe Dante, Garland evita accuratamente le stanze dei bottoni, preferendo un punto di vista dal basso. Non a caso, il suo film esprime un tipo di soggettività che è molto comune nel cinema di genere degli anni Duemila, e le cui radici affondano probabilmente ne La guerra dei mondi di Spielberg: la narrazione non è affatto onnisciente, ma rievoca tutto il caos e l’incertezza delle persone comuni, che subiscono i grandi eventi storici e ne restano disorientate, senza avere la minima idea di cosa accada ai vertici. Lee e Joel possono soltanto registrare le circostanze, non hanno il potere di intervenire per cambiarle. Il loro apparente distacco è anche una strategia di sopravvivenza, ed entrambi sono abbastanza lucidi da sapere che le prossime vittime potrebbero essere loro.

È una prospettiva quasi nichilista, figlia di un’individualità esasperata che ha ormai perso la fiducia nelle istituzioni, come pure nell’illusorio valore educativo della Storia: conseguenza inevitabile di un’epoca che privilegia sempre di più l’aspetto soggettivo su quello comunitario, eleggendo l’esperienza personale a unica guida nell’interpretazione del mondo. La macchina fotografica diviene allora uno strumento da frapporre all’orrore, per nascondersi dietro una supposta imparzialità ed evitare di prendere una posizione. I protagonisti seguono indiscriminatamente l’una o l’altra fazione, al punto che risulta difficile distinguerle: più che un limite narrativo del film, è la dimostrazione di quanto la guerra tenda a sfumare i confini tra le parti in causa, levando ogni punto di riferimento. Così, a furia di mirare e scattare, Lee e Jessie contribuiscono a tramandare la memoria fallace delle immagini, che affida alle fotografie tutto il ricordo e la comprensione, eclissando però – come dice Sontag – altre forme più articolate di memoria e interpretazione. Gli stessi money shot di Jessie, vero e proprio culmine del film, cosa tramanderanno alle future generazioni? Sono istantanee da consegnare alla Storia, ma non potranno mai raccontare la verità nella sua interezza. In compenso, non smetteranno mai di ossessionare chi le guarderà.