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Civil War, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 17 aprile 2024 di Roberto Recchioni

Ogni tanto, nella mia vita di spettatore, mi capita di vedere un film e di accorgermi in diretta, durante lo svolgimento della pellicola, di essere davanti a qualcosa che per me diventerà speciale, che rimarrà nel mio tempo, che vedrò più e più volte da quel giorno in poi e che, da subito, assumerà un valore paradigmatico per me. Negli ultimi anni mi è capitato con Mad Max: Fury Road, Dunkirk, Shin Godzilla… tutte pellicole che, mentre le guardavo, ho percepito che sarebbero diventate qualcosa di significativo per la mia idea di cinema e, più in generale, per la mia sensibilità e la mia vita. E che mi avrebbero ossessionato, da quel momento in poi.
Non capita sempre e non capita per ogni bel film che ho occasione di vedere. Solo alcune opere mi fanno questo effetto e, con il tempo, ho capito che non è una cosa che riguarda esclusivamente la loro qualità (anche se la qualità è importante).
È più il fatto, credo, che questi rari film riescano a toccare delle corde profonde che mi risuonano dentro e consegnino al mio sentire nuove idee capaci di apparirmi come universali e immagini iconiche.
Questa introduzione serve a dire che Civil War è un film che mi ha fatto esattamente questo effetto e che, sin da ora, sono pronto a mettere nella classifica dei miei film preferiti non di quest’anno, ma di questa decade.

La trama in breve: in un futuro identico al nostro presente (e non così improbabile come i fatti dell’assalto al Campidoglio ci hanno insegnato), gli USA sono lacerati da una guerra civile dove due stati ribelli (Texas e California) si sono alleati e ribellati al governo in carica, dando vita a un feroce conflitto interno che sta sconvolgendo la nazione e mettendo gli americani gli uni contro gli altri. Il film racconta la storia di un piccolo gruppo di reporter di guerra che cercherà di raggiungere Washington e il Presidente, per riuscire a intervistarlo prima della, apparentemente inevitabile, caduta.

Scritto e diretto da Alex Garland, fotografato da Rob Hardy, montato da Jake Roberts (entrambi collaboratori di Garland di lungo corso), interpretato da Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny, Stephen McKinley Henderson per i ruoli principali e con Jesse Plemons, Nick Offerman e Jefferson White il ruoli minori ma di spicco, il film è il primo “blockbuster” della A24 che mai prima d’ora aveva stanziato un budget simile per una pellicola (parliamo di “soli” cinquanta milioni di dollari che, per un film comunque indipendente, sono moltissimi).

Un paio di note su Garland: ho avuto la fortuna di conoscerlo quando era ancora un romanziere, poi ne ho seguito con estremo interesse il percorso cinematografico come sceneggiatore e, infine, ho salutato con entusiasmo il suo approdo alla regia. Insomma, sono un fan? No, non direi.
Perché per quanto abbia amato molto il suo romanzo di esordio (The Beach, da cui Danny Boyle ha tratto l’omonimo film che Garland non ha però sceneggiato), ho trovato molto deboli i due successivi. Per quanto abbia amato molto le sue prime opere come sceneggiatore (28 giorni dopo, Sunshine, Non lasciarmi, Dredd, Ex-Machina), ho detestato le cose più recenti (Annientamento e Men). E quanto alla sua carriera di regista, a parte il lavoro fatto sul’ottimo Dredd (dove non era accreditato) e l’ottimo esordio con Ex-Machina, ho trovato molto discutibili, pretenziosi, sgrammaticati e incoerenti i due film successivi (sempre Annientamento e Men).
Eppure, nonostante questo tabellino non esaltate, mai ho dubitato del suo talento, della sua voce e del fatto che, presto o tardi, sarebbe stato capace di fare quel salto di qualità che lo avrebbe consegnato nell’empireo dei grandi registi mondiali.
Civil War è quel salto.

La struttura narrativa del film è molto semplice: i personaggi devono andare dal punto A al punto B entro un certo limite temporale. In questo percorso, gli succedono cose che complicano il cammino e li mettono davanti a loro stessi, oltre che agli altri. Come architettura narrativa è basilare ma del tutto funzionale per mostrare molti angoli del paese e, con essi, raccontare allo spettatore il mondo portato in scena (che è meno ovvio e scontato di quanto appaia) e chi lo popola e, nel contempo, utilizzare il viaggio fisico dei protagonisti come strumento per raccontare il loro cammino interiore.

In termini di linguaggio, Garland complica le cose, adottando X soluzioni diverse.
C’è il racconto prettamente narrativo, classicissimo, fatto dalla solita alternanza di totali, mezzi busti, primi piani, campi, controcampi, carrelli, crane e droni.
Poi c’è il racconto dell’azione, servito dalle riprese con la camera a spalla, dinamiche, ruvide, derivate da quelle dei veri inviati di guerra, a rendere ed esaltare il verismo dell’azione, ma anche dai videogiochi bellici in prima persona.
Poi ci sono i “quadri”, singole inquadrature molto insistite e fisse, a cristallizzare nel tempo e negli occhi un singolo momento, una singola immagine, particolarmente estetizzata, simbolica e iconica.
E, infine, c’è il linguaggio della fotografia diegetica, cioè di quelle fotografie che due dei personaggi del film scattano lungo tutto lo svolgimento della storia e che, a loro volta, raccontano tante storie autonome che hanno un linguaggio proprio, che si evolve o regredisce proprio come si evolvono o regrediscono i personaggi che quelle foto stanno scattando.

La combinazione (ottenuta con uno splendido lavoro al montaggio) tra questa struttura narrativa semplice e questa grammatica visiva articolata, ci restituisce un film che fila come un ottimo action movie bellico e che come tale può essere semplicemente vissuta, ma che è anche capace di servire innumerevoli altri livelli di lettura, che esplorano la politica, la società, la psiche umana, il rapporto dell’uomo con gli altri uomini, con la guerra, con la verità, il senso del giornalismo moderno, l’importanza della testimonianza e anche un per niente banale discorso sull’arte.

Un film all’apparenza semplicissimo e capace di arrivare a chiunque, anche allo spettatore più distratto, ma in grado di piantare semi profondi in chiunque, figlio di un pensiero a monte incredibilmente complesso e ricercato e che trasforma in cinema puro i suoi innumerevoli temi, senza mai diventare didascalico o raccontato.

Inutile dire che il cast principale fa un lavoro eccezionale (Kirsten Dunst si rilancia la carriera e Cailee Spaeny se ne crea una) e che gli attori di contorno impreziosiscono il film in maniera incredibile (il momento con Jesse Plemons e la sua battuta sugli americani è già entrata nella coscienza collettiva).

Ultima nota, ma non una nota da poco, è uno dei film con il più impressionante sound design degli ultimi anni. Se potete, andate a vederlo nel cinema con lo schermo più grande e il sonoro migliore che riuscite a trovare perché, anche sul piano strettamente sensoriale, questo film ha davvero qualcosa da dire.

In conclusione, consigliarvelo mi sembra poco.
Diciamo che ritengo imperativo che lo vediate.
Io lo farò ancora almeno tre volte. Quest’anno.