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Challengers, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 12 aprile 2024 di Roberto Recchioni

Dunque, per motivi deontologici e di onestà intellettuale (che non mi sento di poter garantire) da qualche tempo ho deciso di non parlare più di film e serie italiani. Non perché non penso che non ne valga la pena (ne vale eccome perché abbiamo ottimi autori) quanto perché, per motivi che riguardano le mie altre attività professionali, ho troppi amici, troppi colleghi e troppi interessi nel settore per non esserne influenzato. Nel caso di Challengers però, ho deciso di fare un’eccezione, sia perché quest’opera e la sua produzione sono internazionali, sia perché Luca Guadagnino, il regista della pellicola, ha ormai ampiamente trasceso i limiti nazionali per approdare nell’empireo del cinema mondiale.
La storia del film in poche righe: tre giovani tennisti, due ragazzi (il freddo Mike Faist e il bollente, Josh O’Connor) e una ragazza (sua maestà Zendaya), si conoscono in occasione di un torneo e sviluppano un triangolo amoroso complesso, dove la tensione agonistica si mescola con i sentimenti e il sesso, che prosegue nel corso degli anni e delle loro vite.

Ora, prima di andare avanti, è bene sgomberare il campo da un paio di fraintendimenti.
Prima di tutto, questo non è un film su una relazione poliamorosa, sull’anarchia sentimentale o, semplicemente, su una relazione a tre. Non è, per intendersi, un The Dreamers di Bernardo Bertolucci o un Jules e Jim di François Truffaut (anche se, tra i due, va detto che è più vicino al secondo che al primo). Di scene “controverse” ce n’è solamente una (se si può ancora definire controverso un bacio a tre) e rappresenta più un momento di gioco che la vera tematica del film che si può facilmente sintetizzare nelle parole della grande poetessa Annalisa: “Ho visto lei che bacia lui, che bacia lei, che bacia me…”. Insomma, è semplicemente un film su un triangolo amoroso in cui due cavalieri si contendono l’amore di una Regina. Avete presente Artù, Lancillotto e Ginevra? La stessa cosa. Poi, sì, in sottotraccia c’è una corrente omoerotica e bromance e la promessa di una relazione non canonica che poi non si realizza.

Secondo fraintendimento di cui liberarsi: questo non è un film sul tennis. Ci sono moltissimi film sullo sport praticato da Novak Djoković, ma questo non è uno di quelli. Qui il tennis è solo un colore, uno scenario, rappresentato anche con pochissima accuratezza perché, appunto, non è un film sul tennis. All’inizio avevo pensato di scrivere che Challengers sta al vero tennis come Rocky sta alla vera boxe (cioè, zero), ma non era una affermazione esatta. Perché la rappresentazione della boxe in Rocky è esagerata e folle, ma è comunque centrale nella narrazione. Il gesto atletico, sportivo e agonistico in Rocky è comunque importante, per quanto trasfigurato nelle finzione cinematografica. In Challengers, per quanto Guadagnino cerchi di inventarsi qualcosa per rappresentare la disciplina sportiva preferita da David Foster Wallace (su questo aspetto ci torniamo poi), non c’è l’interesse per l’azione dinamica. Il fuoco del film sta da tutt’altra parte.

Messi da parte questi due elementi, parliamo della pellicola per quello che è, e cominciamo dal suo aspetto più debole, lo script di Justin Kuritzkes, un giovane drammaturgo americano salito all’onore delle cronache per una serie di video su YouTube che non c’è altra maniera che definire “cringe”, largamente parodiati un poco da tutti (anche dal The New Yorker). Kuritzkes è un autore un poco pretenzioso, convintissimo di dire cose estremamente provocatorie. E forse, dal punto di vista del contesto della società americana, le dice davvero, ma in Europa, dove siamo abituati a ben altro, i suoi temi pruriginosi appaiono decisamente naive. Fantasie bigotte raccontate con serietà eccessiva. Ma questa non è la sua colpa più grande per quello che riguarda il film di Guadagnino che, invece, risiede in uno script molto prevedibile e meccanico nella sostanza, scritto avendo ben cura di posizionare tutti i turning point al posto giusto e di seguire alla lettera i dogmi di scrittura di Robert McKee. La sceneggiatura di un prodotto, più che di un’opera, pensata per avere successo e provocare senza provocare davvero. Certo, la forma è più ricercata ma, anche qui, non basta ridurre a spezzatino una storia e poi mescolare il presente con il passato, per fare avanguardia. Lo script di Kuritzkes avrebbe dato vita a un film mediocre nelle mani della maggior parte dei registi ma, fortunatamente per noi, Guadagnino non è la maggior parte dei registi e, pur dovendo lavorare su una sceneggiatura così poco ispirata e così inconsapevolmente bigotta, riesce a tirare fuori uno splendido film.

E passiamo agli aspetti forti di Challengers, che sono riassumibili tutti in un concetto semplice: il gusto di Luca Guadagnino.
Gusto nelle scegliere gli attori. Gusto nel trovare il giusto direttore della fotografia (Sayombhu Mukdeeprom, con cui il regista ha collaborato più volte). Gusto nel trovare le inquadrature. Gusto nel montaggio (coadiuvato da Marco Costa) e nella gestione dei tempi del film. Gusto nello scegliere lo stylist per i costumi (quella rockstar della moda di JW Anderson). Gusto nel trovare gli artisti perfetti per la colonna sonora (Trent Reznor e Atticus Ross, proprio come per Bones and All). Ora, attenzione, quando parlo di “gusto” non intendo dire, necessariamente, “buon gusto”. Non intendo, insomma, che Guadagnino sia uno capace di saper creare (o far creare) cose belle e poi accostarle bene assieme. È bravissimo a farlo, sia chiaro. Ma è anche bravissimo a NON farlo, ad alternare momenti di cinema raffinatissimo a soluzioni kitsch, o camp, o trash, e farli funzionare perfettamente nel contesto generale del film. Prendiamo la rappresentazione del gioco del tennis in Challengers, per esempio. Il regista decide di stare il più lontano possibile, oltre che dalla realtà del gioco e dalle sue regole e terminologie, anche dal modo in cui il tennis è stato rappresentato tanto al cinema in precedenza e quanto dalla cronaca televisiva moderna. Per farlo, si inventa tutta una serie di soluzioni di ripresa per rendere l’azione: soggettive dei giocatori sul campo (avete presente Hardcore! di Ilya Naishuller? La stessa cosa ma peggio), inquadrature impossibili da sotto il campo da gioco (come in Le verità nascoste di Robert Zemeckis), soggettive della pallina (stile Shaolin Soccer), inquadrature a picco, palline (realizzate in digitale) che piombano in faccia allo spettatore che neanche fosse un film 3D di serie zeta, salti in rallenty oltre la rete (e se state pensando a Holly e Benji, non state sbagliando poi di molto).

Di tutte queste soluzioni, non ne funziona mezza. Eppure, Guadagnino riesce a dargli un senso. Sono eccessi, sbavature, assurdità, apparenti imbarazzi e incompetenze, che però donano al film una freschezza dello sguardo necessaria e deliziosa e una vena punk e pop che ben contrasta con il resto del film, ricercatamente formale ed estetizzato.
Altri esempio: l’uso didascalico della colonna sonora (splendida). Quando un personaggio è in un momento di profondo turbamento emotivo parte, di colpo e a tutto volume, un momento musicale particolarmente cacofonico e duro. Succede spessissimo lungo tutto il film e, all’ennesima reiterazione, sembra quasi di stare assistendo a una parodia. Eppure, anche in questo caso, Guadagnino trasforma una soluzione grossolana in qualcosa di non solo perfettamente efficace, ma anche raffinato. La misura è eleganza ma, spesso, anche noia. L’eccesso, è pacchianeria, ma spesso anche vitalità. E questo film di Guadagnino è indubbiamente vivo.
Continuo? Il grande manifesto pubblicitario della coppia (nella vita e nello sport) che viene strappato dalla tempesta, simbolo della divisione in essere dei personaggi. O la tempesta stessa, che, puntuale come le tasse, si presenta proprio nel momento giusto, a sottolineare il tumulto emotivo dei protagonisti. Metaforoni banalissimi e di grana grossa che sarebbero imperdonabili per un autore di alto livello, ma che Guadagnino accosta ad altrettante soluzioni di infinita raffinatezza, creando un contrasto assolutamente unico. È questo, alla fine, lo stile e la voce unica di Guadagnino. Lo stile che nobilita la sostanza, la forma che diventa contenuto, la superficialità che si fa spessore, il pacchiano che si trasforma in sublime.

Prima di chiudere, una nota sugli attori.
Immagino che vi aspettiate che vi parli di Zendaya perché tutti parlano di Zendaya, ma non credo che lo farò. Il maggior merito dell’attrice, in questo film, è di essere un corpo scenico capace di incredibile magnetismo. Oltre a questo però, questa volta c’è davvero poco, sia in termini di intensità nelle parti più recitate, sia in termini di credibilità quando scende in campo.
Se davvero c’è una nota stonata del film che neanche Guadagnino è riuscito ad accordare, è lei.
Poi lasciate perdere che sarà anche la principale ragione per cui questa pellicola sarà un successo.
Discorso diametralmente opposto, invece, per Mike Faist e Josh O’Connor. Al primo, che già aveva avuto modo di mettersi in luce nel bellissimo West Side Story di Steven Spielberg, tocca la parte più difficile e in sottrazione, e fa un lavoro egregio. Al secondo (che avete visto recentemente ne La chimera di Alice Rohrwacher ma che era pure in Emma di Autumn de Wilde) quella più facile ed esplosiva, da cui non si lascia sopraffare. Due volti giovani che avranno un grande futuro, ve lo garantisco.

Detto questo, veniamo alle note finali: vale la pena di andare in sala a vedere questo Challengers? Sì. È il corrispettivo filmico di un paio di sneaker firmate da Christian Louboutin. Un’opera elegante, pacchiana, di moda, pop, un poco assurda, ricercatissima, non proprio per tutti i gusti ma quasi, bellissima a vedersi e a sentirsi.
Un film d’autore vero ma, allo stesso tempo, un perfetto prodotto commerciale.
Che poi, è quanto si può dire di Guadagnino stesso.

Challengers arriverà nelle sale italiane il 24 aprile.