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Cattiverie a domicilio, la recensione del film di Thea Sharrock

Pubblicato il 17 aprile 2024 di Lorenzo Pedrazzi

È il 1920 quando la cittadina costiera di Littlehampton, nel Sussex, diviene l’epicentro di uno degli scandali più chiacchierati d’Inghilterra. Edith Swan, donna molto religiosa, comincia a ricevere lettere piene di oscenità, e ritiene che il mittente sia la vicina Rose Gooding, immigrata irlandese con cui aveva stretto amicizia tempo prima, salvo poi litigare per futili motivi. Il processo che ne deriva suscita l’interesse di tutta la nazione, e Cattiverie a domicilio (in originale Wicked Little Letters) adatta liberamente quella vicenda per metterne in luce gli aspetti più paradossali, ma anche il suo valore simbolico: nella visione di Thea Sharrock, infatti, la sfida tra Rose e Edith è lo specchio di un’epoca visceralmente discriminatoria, dove sessismo e misoginia esistono a livello strutturale.

A tal fine, la sceneggiatura di Jonny Sweet esaspera la caratterizzazione di Rose (Jessie Buckley) per renderla una sorta di anomalia nella società reazionaria dell’epoca. Sboccata e libertina, Rose vive con la figlia Nancy (Alisha Weir) e il compagno musicista Bill (Malachi Kirby), ovviamente al di fuori del matrimonio. Edith (Olivia Colman) è invece il suo opposto: devota e conservatrice, abita ancora con i genitori, e il padre Edward (Timothy Spall) è un uomo autoritario che la comanda a bacchetta. Sweet espande inoltre il ruolo dell’agente Gladys Moss, qui interpretata da Anjana Vasan. Prima poliziotta nella storia del Sussex, l’agente Moss è convinta che Rose sia innocente, e suggerisce di usare una perizia calligrafica per scagionarla, nonostante l’ostracismo maschilista dei colleghi.

Il fatto che Gladys sia responsabile di tutte le svolte decisive nelle indagini (per non parlare del blind casting dell’attrice) dimostra quanto Cattiverie a domicilio ci tenga ad assecondare la sensibilità contemporanea. Thea Sharrock non vuole costruire un racconto storicamente accurato, ma ironizzare sull’ottusità della cultura patriarcale, mettendo in scena una comunità di donne autosufficienti che risolvono da sole i loro problemi. Certo, la soluzione del mistero è facile da intuire fin dall’inizio, anche per chi non conosce la vicenda originale: la Littlehampton del film è un covo di ipocrisia. L’importante, però, non è tanto scoprire chi sia il colpevole, ma come le nostre eroine riusciranno a incastrarlo. In questo senso, è impossibile non simpatizzare con la squadra riunita da Gladys per investigare sulle lettere, un allegro trio di signore che non sopportano la vanità bigotta di Edith. Alla fine, è evidente come le donne siano il motore del progresso, contrapposto al tradizionalismo maschile.

Si tratta comunque di una sceneggiatura fin troppo “chiusa”, palesemente confezionata per suscitare determinate reazioni nel pubblico, con poco riguardo per la naturalezza o la verosimiglianza: è tutto molto artificioso, e non sempre l’umorismo centra il bersaglio. Thea Sharrock ha però il merito di giocare sull’efficace dualismo tra Jessie Buckley e Olivia Colman, con quest’ultima che pare divertirsi un mondo a fare la macchietta baciapile. Al contempo, Cattiverie a domicilio mette in luce un risvolto non banale: il ruolo del linguaggio nell’emancipazione della persona. Il turpiloquio ha infatti un valore liberatorio, soprattutto per le donne, che nelle oscenità verbali rivendicano la stessa libertà comportamentale degli uomini. Rose lo sa bene, ma il discorso vale anche per Edith, che deve alleggerirsi dal giogo paterno per essere davvero sé stessa. In casi del genere, abbandonarsi a imprecazioni e parolacce è la reazione più sana.