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May December, la recensione del film di Todd Haynes

Pubblicato il 18 marzo 2024 di Lorenzo Pedrazzi

L’espressione “May-December” (“maggio-dicembre”) indica un legame romantico tra due persone di età diversa, dove una delle due è molto più grande dell’altra. È una formula che lascia trasparire il concetto di fondo senza dichiararlo apertamente, in bilico fra discrezione e perbenismo: tipico della cultura statunitense. Il film di Todd Haynes, però, eredita questa locuzione come sintesi di un linguaggio anti-didascalico, capace di suggerire reazioni ed eventi senza bisogno di descriverli.

Non è un caso che la sceneggiatura di Samy Burch cominci in medias res, evitando i preamboli. Siamo nel 2015 a Savannah, in Georgia: Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore) e suo marito Joe (Charles Melton) si preparano ad accogliere una famosa attrice, Elizabeth (Natalie Portman), che presterà il volto a Gracie in un film. Quest’ultima cominciò la sua relazione con Joe nei primissimi anni Novanta, quando lei aveva 36 anni e lui soltanto 13. Il ragazzino era un compagno di scuola di suo figlio Georgie (Cory Michael Smith), avuto dal marito precedente. Gracie fu arrestata, e partorì la prima figlia di Joe mentre scontava la sua condanna in prigione; poi, una volta libera, i due si sono sposati e hanno avuto altri due figli, i gemelli Charlie (Gabriel Chung) e Mary (Elizabeth Yu). Mentre Elizabeth comincia a studiare Gracie per preparare la sua futura interpretazione, il già fragile equilibrio della coppia si incrina, riportando a galla conflitti mai risolti.

May December trae ispirazione dal caso di Mary Kay Letourneau, che fece scandalo nel 1996 per il suo rapporto con l’allora dodicenne Vili Fualauu, suo studente: i due si sposarono dopo la scarcerazione della donna, che partorì la loro prima figlia mentre si trovava in prigione. Insomma, è chiaro che gli elementi in comune sono tanti, ma il copione di Burch ha il merito di aggiungere un ulteriore livello narrativo, puntando (fortunatamente) sull’immaginazione e sulla riflessione critica, più che sulla cronaca. L’arrivo di Elizabeth denuda l’ipocrisia di una comunità che non ha esorcizzato i propri demoni, preferendo nascondersi dietro la maldicenza e l’aggressività passiva (Gracie e Joe ricevono spesso dei pacchi anonimi con contenuti poco lusinghieri) invece di affrontare il problema di petto. Così, Haynes mette in scena un mondo di rapporti costantemente falsati, dove le manipolazioni psicologiche cominciano già in famiglia. Esemplare la sequenza in cui Mary prova il vestito per la cerimonia dei diplomi, e subisce il bodyshaming indiretto di sua madre: è come se tutti i rapporti sociali, a ogni livello, fossero caratterizzati da un sottotesto subdolo e manipolatorio.

Elizabeth non fa eccezione; anzi, spesso i suoi comportamenti sono intrisi di sottile doppiezza. Natalie Portman è bravissima a esprimere le vere intenzioni dell’attrice con il linguaggio non verbale, o con parole che nascondono scopi diversi da quelli dichiarati. Il valore di May December è anche questo: suggerisce, piuttosto che declamare. Non a caso, Haynes adotta un simile approccio per rievocare il passato della coppia. Non ci sono spiegoni, né flashback esplicativi: la vicenda emerge per gradi dalle indagini di Elizabeth e dalle copertine dei tabloid, ovvero il principale mezzo di diffusione per una storia del genere.

Succede allora che l’attrice s’immerga talmente a fondo nella sua ricerca da sfiorare l’ossessione, e May December finisce per rileggere a modo proprio un antico topos letterario: quello del doppio. Non è certo una sorpresa che Haynes abbia citato Persona di Bergman tra le sue fonti d’ispirazione. Elizabeth si sovrappone progressivamente a Gracie, al punto da far coincidere persino il suo desiderio con quello della donna. Joe diviene la vittima di un gioco inconsapevole, laddove Elizabeth non si rende conto che quest’ultimo – pur essendo suo coetaneo – è confinato in un’eterna adolescenza, essendo stato privato di un’educazione sentimentale sana; mentre Gracie lo intossica di gaslighting, facendogli credere (e convincendo anche sé stessa) che sia stato lui ad averla sedotta, e sia stato sempre lui ad avere il controllo. «Who’s the boss?» gli chiede in un momento cruciale, rivelatore di un rapporto basato fin dall’inizio – di nuovo – sulla manipolazione.

Chi cerca una scena madre difficilmente resterà soddisfatto. May December non propone soluzioni, e non scivola mai nella retorica: al contrario, è un lucido ritratto dell’utilitarismo che spesso caratterizza le interazioni sociali, e il finale lo dimostra in pieno.