Se dobbiamo credere ai loro film solisti, Joel Coen ne esce come il fratello più serioso e riflessivo della coppia, mentre Ethan sembrerebbe il più buontempone. D’altra parte, il primo ci ha regalato un’affascinante rilettura metafisica del Macbeth, mentre il secondo ha diretto lo spassoso Drive-Away Dolls, forse più vicino al registro consueto del loro cinema (seppure condotto alle estreme conseguenze). La differenza, in effetti, è che Ethan Coen ha scritto la sceneggiatura con sua moglie Tricia Cook – l’idea risale addirittura ai primi anni Duemila – e la queerness che ne deriva è una ventata d’aria fresca per il regista americano, come pure i suoi riferimenti cinematografici.
Siamo nel 1999, a Philadelphia. Jamie (Margaret Qualley) diventa improvvisamente single quando la sua fidanzata Sukie (Beanie Feldstein) ne scopre i molteplici tradimenti. L’amica Marian (Geraldine Viswanathan) è invece il suo opposto: non ha una relazione da più di tre anni, e piange ancora un amore perduto. Consapevole della sua frustrazione, decide di andare a Tallahassee per far visita a una zia, lasciandosi alle spalle lo stress del lavoro e della città. Jamie, che ha bisogno di cambiare aria, è ben lieta di accompagnarla. Si rivolgono quindi a un servizio di drive-away, che fornisce automobili gratis a chiunque sia disposto a portarle in una determinata città. Guarda caso, ce n’è una che deve andare proprio a Tallahassee… ma il bagagliaio contiene due misteriosi articoli cui dà la caccia una stramba coppia di sicari, e le ragazze si ritrovano al centro di un intrigo che coinvolge figure molto potenti.
Insomma, l’impasto di thriller e commedia rimanda ai classici dei fratelli Coen, con i tratti ricorrenti della loro poetica: personaggi bizzarri, dialoghi al fulmicotone, situazioni stranianti, sublimazione della violenza in un grottesco stilizzato e surreale. Ethan preme però sugli elementi caricaturali, al punto che Drive-Away Dolls assume un tono quasi cartoonesco, come dimostrano sia il lavoro sugli effetti sonori sia il montaggio della stessa Tricia Cook. Le transizioni fra una scena e l’altra sono molto giocose, allineate a un’opera felicemente sopra le righe, dove persino il marcato accento texano di Margaret Qualley ha un’aria stralunata.
Una gradita variazione rispetto a molte storie lesbo recenti, spesso intrise di una drammaticità che sfiora il sadismo. Al contrario, Drive-Away Dolls è un’avventura che non si prende sul serio, ilare e piena di libertà. Il copione ci trascina via con le sue battute scoppiettanti, svelando per gradi il punto centrale del film: la valigetta nascosta nel bagagliaio dell’auto è solo un MacGuffin, oppure svolge un ruolo effettivo nella trama? Ethan Coen verrà accusato di imporre un punto di vista troppo maschile, e per certi aspetti è vero, ma il “fallocentrismo” di Drive-Away Dolls è funzionale alla satira di una cultura reazionaria e maschilista che idolatra i propri attributi come reliquie. Le gesta di Marian e Jamie non fanno altro che demistificarli, privandoli della loro supposta unicità e preziosità. Non a caso, una dedica sui titoli di coda ricorda Cynthia Plaster Caster, scomparsa nel 2022: il motivo non è difficile da capire.
L’impressione è di assistere a un film d’altri tempi, con una durata da exploitation (uno degli ovvi riferimenti è Faster, Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer) e il piglio romantico di cult lesbo come Go Fish e Gonne al bivio. La storia peraltro getta un ponte tra il 1999 e gli anni Sessanta, rievocati attraverso variopinti segmenti lisergici che ospitano un prestigioso cameo. Da un lato si parodia la Summer of Love con i suoi cliché, dall’altro si fa una ricostruzione non stereotipata della fine del millennio, optando per il naturalismo in luogo dell’artificiosità; e il merito è anche delle scelte musicali non scontate, come i brani di Funkadelic, Linda Ronstadt e Diana Krall. Ci si diverte parecchio, ma mai a scapito delle guascone protagoniste.
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Ron Howard ricostruisce la misteriosa vicenda di Floreana in un’epopea di carne e sangue, divisa tra le tentazioni del nichilismo e le spinte della tradizione.
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