Another End di Piero Messina è un raro esempio di cinema italiano che inventa spazi e formula nuovi costumi sociali: non a caso, la sceneggiatura scritta dal regista con Giacomo Bendotti, Valentina Gaddi e Sebastiano Melloni attinge alla fantascienza e alla finzione speculativa, intercettando questioni solitamente poco esplorate dai film nostrani. Indigo Film e RAI Cinema guidano una produzione dal respiro internazionale, girata a Parigi in lingua inglese e spagnola, dove l’ambiguità del contesto – sia geografico sia temporale – contribuisce all’identità stessa dell’opera.
Siamo in un futuro non troppo lontano, fra le strade di una fumosa metropoli che non viene mai nominata. Sal (Gael García Bernal) è tormentato dalla morte di Zoe, l’amore della sua vita, deceduta in un incidente automobilistico. Esiste però un modo per alleviare il distacco: una tecnologia chiamata Another End consente di far rivivere il caro estinto in condizioni molto specifiche, caricando i suoi ricordi e la sua coscienza nel corpo di un host volontario. Ebe (Bérénice Bejo), sorella di Sal, lo incoraggia ad approfittarne prima che la coscienza di Zoe venga cancellata del tutto. La donna ritorna quindi con le fattezze di una locatrice (Renate Reinsve) che si mette a disposizione per un periodo limitato. Inconsapevole di essere morta, Zoe riprende la sua vita normale, ma Sal capisce ben presto che non può accettare di perderla un’altra volta.
I debiti con Black Mirror sono evidenti fin dal principio, inutile negarlo: Messina combina le suggestioni tecnologiche di The Entire History of You e Be Right Back (forse gli episodi più rappresentativi della serie di Charlie Brooker) per dipingere un futuro sempre più fosco e contratto in sé stesso. Le coscienze dei morti vengono ospitate per brevi periodi in corpi estranei, mentre ricordi personali e contenuti multimediali sono fruibili in-eye, con la possibilità di immergersi completamente nel passato o nella finzione; insomma, la tecnologia finisce per ostacolare tanto l’elaborazione del lutto quanto la sedimentazione della memoria, ingabbiando le persone in un eterno presente che le isola dalla realtà.
Mentre l’industria dell’aldilà digitale – che già aveva ispirato Be Right Back – continua ad alimentare dibattiti e preoccupazioni, Another End inquadra il problema da un’angolazione fantasiosa. Le idee originali, in effetti, non mancano: la “resurrezione” dei defunti è caratterizzata da una certa teatralità (in altre parole, viene messo in scena il loro salvataggio), e l’ambiguità che li accompagna rievoca le crisi identitarie di Philip K. Dick, nella misura in cui il defunto non sa di essere tale. Se ignoriamo alcune forzature logiche (che comunque il film è abile a mascherare), la sceneggiatura propone un approccio da sci-fi intimista ricco di fascino, per quanto derivativo. Piero Messina sa ritrarre la quotidianità con naturalezza, anche all’interno di un contesto speculativo, permettendo a Gael García Bernal e Renate Reinsve di esprimere tutto il loro talento nelle sfumature dei personaggi.
Così facendo, Another End riesce a esplorare le reazioni più comuni di fronte alla perdita, in particolare il conflitto tra il desiderio di rimozione (lo stesso che attraversava Eternal Sunshine of the Spotless Mind) e l’attaccamento morboso al ricordo, l’incapacità di lasciarlo andare. Ma è anche un film di spazi urbani opprimenti, difficili da ricondurre a una città specifica, e quindi capaci di disorientare: in buona sostanza, è la medesima esperienza vissuta da Sal, che infatti cerca un senso esistenziale nel nucleo privato degli affetti, come gli altri personaggi. Certo, la focalizzazione intimista non permette di sviluppare tutte le idee in modo compiuto, e inoltre permane la sensazione di assistere a un’opera un po’ fuori tempo massimo, in quanto a temi e tecnologie. Il finale, però, ne riscatta i limiti, confermando la supremazia dell’aspetto emotivo.