Cinema Recensioni roberto recchioni
Quando, nel 1963, Frank Herbert iniziò a serializzare il suo romanzo, Dune, sulle pagine della rivista di fantascienza Analog, difficilmente poteva immaginare quale eco avrebbe avuto negli anni a seguire. Il manoscritto nasceva dalle suggestioni che avevano colpito lo scrittore in un suo viaggio a Florence, nell’Oregon, dove aveva osservato le grandi dune e il deserto che assediava e “divorava” le cittadine, dalla sua frequentazione con l’amerindo “Indian” Harry, che gli aveva a lungo parlato di come l’uomo bianco stesse “mangiando la Terra”, dalla sua passione per il mito, i fumetti di supereroi, le figure messianiche e l’intima convinzione che l’umanità, in una maniera o nell’altra, sarebbe sempre ricaduta sotto un sistema feudale dove una figura “illuminata e forte” avrebbe guidato e condotto le masse. Inoltre, Herbert aveva una certa passione per il periodo storico della conquista del caucaso (1817-1864), dove l’impero russo se l’era data di santa ragione con la resistenza musulmana. A tutto questo aggiungete una certa passione dello scrittore per le droghe psichedeliche di origine naturale e l’influenza del Signore degli Anelli (pubblicato meno di dieci anni prima) di Tolkien sulla emergente controcultura americana e sulla narrativa fantastica in generale.
La risultante di tutti questi elementi mescolati fu Dune, un romanzo in due parti che raccontava le vicende del pianeta omonimo, della guerra combattuta per il suo dominio e dell’ascesa di Paul Atreides, il futuro imperatore-dio della galassia. Un racconto di fantascienza che usciva in un periodo di grande rinnovamento per un genere che già era entrato nella sua fase più matura e impegnata ma che, agli inizi degli anni sessanta, trovava un nuovo terreno fertile nella controcultura. Dune era un romanzo che intercettava i temi dell’ecologismo, della politica, del potere, della religione e delle guerre, che coglieva il rinnovato interesse per l’esplorazione delle potenzialità della mente sul corpo (specie se “liberata” da droghe psicotrope), che si sposava con il rinnovamento del genere supereroistico portato dalla Marvel proprio in quegli anni e che calava tutto questo in un world building estremamente approfondito e articolato.
Per questo fece subito un grosso clamore, venne adorato dai fan della science fiction, ricevette numerosi premi di settore e divenne fonte ispirativa per tantissimi autori che seguirono, in una maniera o nell’altra, l’esempio di Herbert. Da subito si cercò di adattarla in altri linguaggi, dai giochi da tavola ai fumetti e, ovviamente, al cinema. Le vicende di questi, generalmente infruttuosi, tentativi è lunghissima e coinvolge personalità di primissimo piano (due su tutte: Alejandro Jodorowsky e Moebius) e raccontarla tutta è, a sua volta, una grande romanzo. Ci limiteremo quindi a dire che la densità degli avvenimenti di Dune, la sua complessità narrativa, la ricchezza della sua messa in scena e la spigolosità dei suoi temi, impedirono al romanzo di trovare un suo pieno sviluppo nella cultura davvero massificato. Rimase, per tanti anni, un testo di culto tra gli appassionati del genere fantascientifico e fantastico (non una piccola platea, sia chiaro, ma neanche “la massa”) ma non riuscì mai a entrare davvero nell’ambito della cultura popolare. Un testo sacro, per molti ma non per tutti, se vogliamo semplificare.
Questo fino al 1977, quando George Lucas ne saccheggiò (dichiarandolo) molti scenari e concetti per dare vita a quel fenomeno (questo sì, davvero di massa) di Star Wars. Il successo mondiale dell’opera di Lucas portò, per riflesso, a un rinnovato interesse per l’opera di Herbert e non furono pochi quelli che pensarono: Star Wars è stato un successo senza precedenti che ha fruttato una marea di soldi a chi lo ha fatto, andiamo all’origine, portiamo sul grande schermo l’opera che lo ha ispirato, e facciamo il colpaccio anche noi. La risultante di questo ragionamento troppo semplicistico, portò a una guerra di diritti e a tutta una serie di rocambolesche avventure per trasporre il romanzo di Herbert al cinema. A spuntarla, nel 1984, fu Dino De Laurentiis che, dopo un primo tentativo andato a vuoto (e che avrebbe visto alla regia Ridley Scott su uno script dello stesso Herbert) riuscì a confezionare un mezzo colossal da quaranta milioni di dollari (non pochi per l’epoca), affidandolo a un giovane David Lynch. Il film, per tutta una serie di motivi (tra cui l’essere un meraviglioso disastro e incidente annunciato), andò malissimo, e di Dune, per parecchi anni, non se ne parlò più. L’opera di Herbert venne quindi confinata nel mondo dei videogiochi (dove diede vita a un paio di titoli seminali per la nascita degli strategici in tempo reale con raccolta e impiego di risorse) e della televisione (con discutibili adattamenti serializzati).
Ora, per fare breve una storia lunga e sorvolando su tutta un’altra serie di fallimentari tentativi di rilancio, arriviamo al 2011, quando la Legendary Entertainment decide di acquistare i diritti del romanzo per il cinema e la televisione. Ci riesce nel 2016 e subuto coinvolge Denis Villeneuve, regista lanciatissimo (in quell’anno trionfa sul grande schermo con Arrival) e molto appassionato di fantascienza (tanto è vero che, prima di Dune, girerà il controverso sequel di Blade Runner). Villeneuve impone la sua visione di una pellicola divisa in due parti (seguendo l’andamento del romanzo originale) e, coinvolgendo molti dei suoi collaboratori storici, si mette a scrivere un film che deve riuscire a rendere popolare e “largo” un testo piuttosto ostico, già saccheggiato dall’immaginario popolare. Il budget è buono ma non eccessivo perché che l’operazione sia rischiosa lo sanno tutti: 165 milioni per la prima pellicola. Per la seconda, ci si pensa poi, una volta visto come andrà la prima parte. Che va decisamente bene, portandosi a casa quasi mezzo miliardo di dollari.
Il primo capitolo di Dune, del resto, è un buon film, ben ragionato e portato in scena con l’intelligenza prima che con i muscoli. Che la produzione sia ricca ma non ricchissima è evidente da tanti dettagli, a cominciare da alcuni props di scena, passando per un design a tratti bellissimo ma, a tratti, molto standardizzato, derivativo e poco coerente, fino a dei non eccelsi effetti digitali, ma Villeneuve riesce a mascherare tutto, forte del suo occhio estetico straordinario (sostenuto da eccelsi collaboratori), facendo lavorare per lui il deserto e la natura, scegliendo volti furbi per portare in scena i personaggi creati da Herbert e chiedendo ad Hans Zimmer di musicare il tutto.
Un film a cui, forse, manca qualcosa (un pizzico di tempo in più nella pre-produzione, probabilmente) per aspirare al ruolo di nuovo classico del cinema, ma comunque una grande pellicola che riesce a condensare, stilizzare e rendere fruibile la magmatica e complessa opera originale.
E veniamo al secondo capitolo.
Che arriva sui nostri schermi in ritardo su quanto previsto, a causa dello sciopero degli sceneggiatori e attori. Tempo perso, si potrebbe pensare. Oppure, tempo guadagnato, per curare tutto meglio, lucidare le superfici, stringere i bulloni, raffinare la formula e lavorare con maggiore attenzione su ogni dettaglio. Dare, insomma, quel tocco in più che alla prima parte di questo adattamento mancava.
Ed ecco il miracolo.
Perché Dune – Parte Due, pur essendo del tutto coerente con la gramatica e l’impatto visivo della prima pellicola, sembra un altro film per ambizioni ed esiti.
In scrittura, Villeneuve (assieme a Jon Spaihts) fa scelte difficili (che probabilmente scontenteranno qualche fan integralista del romanzo), che sono però necessarie per mettere a fuoco la storia e farne emergere quel tema centrale che lo stesso Herbert lamentava che non fosse stato pienamente colto dai suoi lettori. Elimina poi alcuni degli aspetti più weird e respingenti del romanzo (che porteranno poi tutta la saga alla deriva, nei capitoli letterari successivi). perché si tratta di un film da quasi duecento milioni di budget e va bene rischiare, ma essere suicidi è stupido. Infine, lavora per mettere al centro della scena quei personaggi che meglio incarnano lo spirito del tempo presente, senza però scordarsi mai che il fulcro di tutta la narrazione è Paul Atreides e il suo cammino.
In termini visivi, il regista non cambia di una virgola il suo approccio ma gioca ancora meglio con gli elementi che ha a disposizione. Di nuovo, fa lavorare il deserto, la sabbia, il cielo e la linea dell’orizzonte, per lui (e per Greig Fraser, incredibile direttore della fotografia). Sono gli elementi naturali, più che gli effetti speciali, a fare di questa pellicola uno spettacolo per gli occhi non solo enorme, ma di straordinaria bellezza. Di nuovo, Villeneuve si affida ai suoi attori straordinari, potendo questa volta contare sulla magnetica intensità di una Zendaya che passa dall’essere una presenza scenica degna di una pubblicità dei profumi come nel primo film a coprotagonista assoluta e vero cardine emotivo di questa seconda parte. Di nuovo, fa montare il film dall’evocativo e sognante Joe Walker. Di nuovo, può contare su una colonna sonora affidata ad Hans Zimmer, qui all’apice della forma, che firma il suo capolavoro. Quello che però c’è di nuovo è la cura complessiva. A schermo non appaiono più props generici e di fattura industriale ma tutto è costruito per il film e si vede. Il design di tutti gli elementi visivi è ripensato in maniera discreta, quasi invisibile, ma significativa, reso coerente e raffinato e, soprattutto, portato a schermo da effetti digitali sempre all’altezza. Tutto è perfezionato, reso migliore, armonizzato.
Come se Villeneuve avesse bevuto l’acqua della vita e adesso vedesse tutto e avesse tutto sotto controllo.
Il risultato è che la seconda parte di Dune fa apparire la prima quasi come fosse una bozza (una bella bozza, sia chiaro) e che questa sia la vera opera definitiva.
Un’opera definitiva che raggiunge quelle vette di assoluta e ossessiva eccellenza che solo pochissimi film nella storia del cinema hanno mai raggiunto. Per quello non ho paura di dire che il Dune di Villeneuve, nel suo complesso, può ora sedersi accanto a opere impossibili come Blade Runner o Alien e guardarle da pari.
Non succede spesso nella vita di poter andare a vedere in sala un futuro classico eterno. Noi abbiamo questa occasione grazie a questo film.
Precipitatevi a vederlo.
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