Alla luce di Dune – Parte due, appare ancora più chiaro quanto la trasposizione del romanzo di Frank Herbert sia un compendio delle potenzialità e delle contraddizioni della nostra industria culturale, anche in rapporto al contesto storico che l’ha generata. Se il primo film era una lunga e articolata premessa, il secondo porta a compimento non soltanto l’evoluzione spirituale di Paul Atreides, ma l’intero discorso che Denis Villeneuve voleva impostare con questo adattamento, e che si risolve in una dialettica tra forze contrapposte: sviluppo forse inevitabile, considerando che il libro di Herbert è figlio di un’epoca molto diversa sul piano della sensibilità e degli scenari politici internazionali.
Ritroviamo i protagonisti esattamente come li avevamo lasciati. Paul (Timothée Chalamet) e sua madre Jessica (Rebecca Ferguson) sono stati accolti dai Fremen di Stilgar (Javier Bardem) dopo che Paul ha provato il suo valore sconfiggendo in duello Jamis (Babs Olusanmokun). Comincia così il suo apprendistato per diventare un Fremen, mentre gli Harkonnen stringono il cappio su Arrakis e prendono il controllo della produzione di spezia. Chani (Zendaya) si avvicina sempre di più a Paul e lo aiuta a imparare gli usi della sua gente, ma il ragazzo è tormentato da visioni del futuro: se diventerà il Lisan Al-Gaib (“voce del mondo esterno”), ovvero il profeta lungamente atteso dai popoli delle sabbie, una sanguinosa guerra santa si propagherà per tutto l’universo conosciuto.
Intanto, il Barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) non è soddisfatto di come suo nipote Glossu Rabban (Dave Bautista) sta gestendo la situazione su Arrakis, e pensa di sostituirlo con il sadico Feyd-Rautha (Austin Butler). Su Kaitain, l’Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken) monitora gli eventi con una certa preoccupazione, e sua figlia Irulan (Florence Pugh) li registra in un diario, consapevole che presto lei stessa sarà coinvolta in prima persona.
Si parlava di forze contrapposte, e infatti Dune – Parte due deve confrontarsi con uno Zeitgeist che guarda agli sviluppi narrativi del romanzo (uscito nel 1965) con occhio molto più critico rispetto al passato. Lo stesso viaggio dell’eroe – che tanto ha influenzato la fantascienza negli anni successivi, a partire da Guerre stellari – viene messo in discussione come mai prima d’ora: la sceneggiatura di Denis Villeneuve e Jon Spaihts insiste molto sull’ambiguità del destino di Paul, lasciando intendere che l’eroe e il tiranno siano separati da un confine molto sottile. In effetti, l’adattamento ci mette in guardia dal fondamentalismo religioso e dall’utilizzo delle profezie (in particolare circa la venuta di un messia) come strumento di manipolazione collettiva. L’ascesa di Paul Muad’dib, lo Kwisatz Haderach della sorellanza Bene Gesserit, è davvero preferibile al giogo dell’Imperatore?
Criticare il viaggio dell’eroe è utile per sottolinearne l’origine occidentale, rileggendo Dune come uno specchio delle ingerenze straniere in Medio Oriente. Non a caso, Villeneuve e Spaihts contestano l’idea del white savior, o quantomeno ne riconoscono la problematicità. Il personaggio di Chani serve anche a questo: rispetto al libro, la guerriera Fremen si oppone più esplicitamente all’evoluzione messianica di Paul, e diffida di quel paladino venuto da lontano che sfrutta una fede introdotta dall’esterno per controllare il suo popolo. Chani diviene qui il doppio dell’autore, la portatrice del suo punto di vista critico e della nostra stessa consapevolezza “risvegliata”. Tale dialettica tra forze contrastanti evidenzia quanto l’industria culturale si affanni a tenere il passo del mondo che cambia, per essere all’altezza di un dialogo che richiede livelli sempre maggiori di autocoscienza. È il peso di questi conflitti interni a frenare un po’ l’adattamento, che a tratti sembra camminare sulle uova per non scontentare nessuno: da un lato cerca di restare attinente al romanzo (pur cambiando e semplificando alcuni elementi), dall’altro si sforza di rammentarci la sua consapevolezza progressista, valorizzando la prospettiva dei nativi e della protagonista femminile.
Chiunque conosca i trascorsi di Villeneuve, però, sa bene che tali scelte non sono ruffiane o freddamente calcolate, ma confermano un’acuta sensibilità formatasi nel cinema del reale: già nel suo corto documentario REW-FFWD, del 1994, il regista canadese superava gli stereotipi occidentali per mettere in scena l’autenticità delle popolazioni locali (in quel caso era la Giamaica), usando la macchina da presa come strumento di dialogo e non come filtro dietro cui nascondersi. Barlumi dei suoi esordi s’intravvedono anche qui, come nelle precedenti esperienze ad alto budget. Laddove però il primo film aveva ancora quel carattere trattenuto che distingueva buona parte del suo cinema, Dune – Parte due esplode in tutte le direzioni con risultati davvero epici, sancendo il passaggio definitivo di Villeneuve alla maturità hollywoodiana: un regista che si mette completamente al servizio della storia, abile a gestire la macchina spettacolare senza però trascurare l’introspezione. Scene come la prima cavalcata di uno Shai-Hulud, il verme delle sabbie, dimostrano la sua capacità di attribuire peso e gravitas alle più grandi suggestioni visive, usando le musiche di Hans Zimmer per elevarle a “mito”.
D’altra parte, Dune è una delle ultime vere imprese di Hollywood, un raro caso (ai giorni nostri) di colossal che punta davvero a restare imbrigliato nella memoria, dove la narrazione di ampio respiro e il grande spettacolo si intrecciano a tematiche pressanti. La suddetta problematizzazione esisteva già nel romanzo, seppure in modo più sottile, mentre qui viene tradotta in un linguaggio forse più accessibile al fruitore generalista. Un pubblico, peraltro, ormai abituato alla serializzazione narrativa, fondamentale nelle logiche dei franchise: se l’epilogo resta (colpevolmente?) più aperto e sospeso rispetto all’opera letteraria, il motivo è anche questo.
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