Sì, esatto, già dieci anni da Whiplash, da quello che molti indicano come il miglior film mai fatto da Damien Chazelle, il suo più coraggioso, violento e difficile. Di certo il film che ne ha cambiato la carriera, facendolo uscire dal piccolo recinto degli “indie” per siglarne l’arrivo sulla piazza grande, partendo paradossalmente da quel corto anonimo, dove aveva immesso le sue memorie di giovane jazzista, finito dentro un clima di individualismo e competizione assolutamente folli. Whiplash, a dieci anni di distanza, non ha perso nulla della sua straordinaria capacità di metterci a disagio.
Whiplash nacque al Sundance Festival dell’anno prima, quando arrivò sotto forma embrionale di corto e convinse così tanto pubblico e critica, che infine Chazelle si vide finanziare la versione lunga, che dagli anni a Princeton, dall’identità di biopic, infine virò su ben altro. Certo, il clima non doveva essere dei migliori, ma la verità è che Chazelle fece qualcosa di molto più complesso: creò la rappresentazione perfetta del rapporto malato tra uomo e arte, artista con sé stesso, ma soprattutto allievo e mentore. Il jazz, come noto, è un mondo a sé stante, è diverso dal rock, dall’hip hop, dal reggae o da qualsiasi altro genere, porta con sé una visceralità che genera un individualismo e un perfezionismo sovente incomprensibili. Ed è quello che scoprirà Andrew Neiman (Miles Teller) che sogna di diventare il miglior batterista jazz su piazza ed è sicuro di sé stesso e delle sue doti, almeno finché non compare in scena lui, Terence Fletcher, che grazie a J. K. Simmons è qualcosa di più di un banale insegnante. Mai prima di allora si era vista nella cinematografia americana una figura così ossessiva, dittatoriale, narcisistica, violenta, prevaricatrice e astuta. Simmons, di gran lunga il miglior character actor della sua generazione, dentro ci mette tutto ciò che non erano stati Robin Williams e tanti altri attori nel romanticizzare la figura del mentore, del maestro. Ma lui più che renderla affettuosa, la rende fuoco che incenerisce e poi obbliga a ricostruirsi con altra forma, come Fletcher pensa che un jazzista debba essere, lì allo Shaffer di Manhattan. Chazelle si ispirò al suo vero docente dell’epoca? Sì. E no. Perché in realtà la sua vita, le sue esperienze, sono solo un pretesto, ci mette dentro Buddy Rich, la sua frustrazione per non riuscire a trovare la quadra di La La Land. E quindi cosa diventa Whiplash? Diventa l’odissea di un’ossessione della perfezione, diventa la vivisezione dell’american dream moderno. Come si differenzia da quello antico? Non è ottimista, è individualista ancora di più, è fatto di dannazione più che di sogni, è privo di moralità, quella che Andrew mette completamente da parte osservato con compiacimento da quell’insegnante che non ha pietà per niente e nessuno. Ma è proprio in questa componente che il film infine prende e smette di essere un dramma privato e diventa universale, facendo un grande salto di qualità.
A voler esser onesti, Whiplash fa venire in mente soprattutto Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. Di base è un film che ci parla della violenza come metodo standard nella società, per forgiare individui eccezionali atti a perorare un fine unico: la grandezza. Che sia un fucile, un sassofono, il microfono o un pallone da baseball non importa, la violenza verso gli altri e sé stessi è parte della ricetta. Fletcher ha perso per i suoi abusi psicologici un allievo promettente, ma non torna indietro, non modifica il suo modus operandi perché sente, in cuor suo, che quella è l’unica strada possibile. Andrew diventa un pazzo furioso, smette di essere un essere umano, ma è solo nella sfida con il suo insegnante che trova una ragione di vita, in quella contrapposizione che infine straborda, nel finale sontuoso, in cui i due dall’odio passano improvvisamente all’amore in un battito di bacchette. Questo ci arriva anche grazie ad un montaggio pazzesco, premiato giustamente con l’Oscar, come il sonoro ovviamente, che rende la musica il vero battito cardiaco dei protagonisti e delle loro vite. Oscar anche per Simmons, ma non è da meno Teller, che assieme comunicano mai parlando, ma con grida, suoni, grugniti, le parole sono usate per mentire o ingannare, solo la musica è vera, solo suonando riveli chi sei veramente o chi vuoi diventare. E Andrew capisce che vuole diventare come Fletcher, che lo insulta, che lo percuote, che lo soggioga, ma che ha visto il suo talento per primo, che vuole essere lo scopritore del nuovo Charlie Parker. Chazelle ci avrebbe parlato del rapporto tra felicità, successo e ossessione in ogni suo film: La La Land, First Man, Babylon. Vale la pena? Dipende da cosa hai da perdere, da cosa hai da sacrificare. Solo chi è a terra come è Andrew su quel palco, dopo essere stato ingannato dall’insegnante che ha fatto cacciare pensando di farla franca può risorgere così. Ne vale la pena? Domanda sbagliata: si può emergere senza essere così fanatici? No. Ma l’american dream che diventa incubo per Chazelle è anche la strada di un Michelangelo, di un Rachmaninov, di un Daniel Day Lewis o di un Scorsese. Il che poi dona una luce lugubre all’arte in quanto tale, alla sua capacità di stravolgere le vite non di chi la osserva, ma di chi la crea.