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The Warrior – The Iron Claw, la recensione del film di Sean Durkin

Pubblicato il 29 gennaio 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Il wrestling è uno dei fenomeni più rappresentativi della cultura statunitense. In quanto spettacolo mascherato da competizione sportiva, coagula in sé numerosi tratti dell’immaginario americano: dietro al superomismo dei gesti atletici si cela infatti una rigida predeterminazione, dove ogni conflitto e ogni risultato è frutto di uno script, volto a suscitare precise reazioni nel pubblico. Nulla è lasciato al caso, nemmeno le caratterizzazioni macchiettistiche dei lottatori, spesso identificabili da un singolo elemento stereotipato. Lo stesso contrasto manicheo tra babyface e heel riassume una visione del mondo tanto amata dagli americani, secondo cui esiste un “noi” (i buoni) e un “loro” (i cattivi). Questo dice molto di un paese che ha basato la propria grandezza – ma anche i suoi limiti – su una forte ritualizzazione della vita sociale e lavorativa, nonché sull’idea che ogni momento debba essere pianificato con cura. D’altra parte, un simile contesto incoraggia la competitività a tutto campo, quindi non c’è da stupirsi che The Warrior – The Iron Claw prenda la storia della famiglia Von Erich e ne faccia la sintesi di un’intera cultura.

Riconosciuti come una delle più grandi dinastie nella storia del wrestling, i Von Erich fanno capo al padre Fritz (Holt McCallany), ex campione della NWA noto per la sua tipica mossa di sottomissione, l’artiglio di ferro. Il figlio Kevin (Zach Efron), diventato il maggiore dopo la morte del piccolo Jack Jr., sta già seguendo le orme del padre, come pure il fratello David (Harris Dickinson): quest’ultimo debutta in coppia con Kevin nel 1979, battendo Bruiser Brody e Gino Hernandez. Ci sono anche altri due fratelli, Kerry (Jeremy Allen White) e Mike (Stanley Simons). Se Mike è più interessato alla musica, Kerry è un atleta specializzato in lancio del disco, e si sta allenando per partecipare alle Olimpiadi di Mosca. Quando il Presidente Jimmy Carter impone il boicottaggio dei giochi da parte degli Stati Uniti, però, Kerry è costretto a tornare a casa in Texas, e accetta di diventare a sua volta un lottatore di wrestling.

Fritz mette i figli in uno stato di competizione perenne: non si fa problemi a dichiarare chi sia il suo preferito, ma sottolinea come le gerarchie possano cambiare da un momento all’altro. È un padre-padrone che impone ai ragazzi una carriera e una missione, eppure abdica alle sue responsabilità – come la madre Doris (Maura Tierney) – non appena c’è da risolvere una questione psicologica o emotiva. Entrambi i genitori si schermano dietro una profonda fede religiosa, che funge da alibi per non affrontare i traumi. Quando la morte torna a colpire i Von Erich, la stessa Doris la attribuisce alla volontà divina. Solo Kevin si preoccupa del benessere dei fratelli, ma nemmeno lui può evitare che cadano uno dopo l’altro sotto il peso delle aspettative paterne.

A tal proposito, è paradossale che Sean Durkin abbia dovuto tagliare un fratello dalla sua ricostruzione della storia, semplicemente perché il film non avrebbe potuto sopportare un’ulteriore tragedia. Il regista de La fuga di Martha mette in scena un’altra formazione “deviata”, seppure nascosta dietro una famiglia tradizionale che esalta gli stessi valori dell’American Way: eccezionalismo e individualismo. Questi princìpi scolpiscono i muscoli dei fratelli Von Erich, che nella perfezione fisica cercano un modo per imporsi sull’altro, mantenendo un severo controllo su loro stessi. La smodata dedizione di Zac Efron è esemplare, in tal senso: il suo corpo esplosivo e iperbolico, al limite del grottesco, rende bene l’esasperazione di Kevin nella sua ricerca di approvazione paterna. Un impegno fisico che coinvolge anche il resto del cast, in primis Jeremy Allen White e Harris Dickinson. Gran parte delle scene di lotta sono state infatti girate senza controfigure, con le coreografie plastiche di Chavo Guerrero Jr. (che fa un cameo nel ruolo di The Sheik).

Sean Durkin e il direttore della fotografia Mátyás Erdély sono bravi a danzare con i lottatori camera a spalla, o a inquadrare gli incontri in campo totale – talvolta girando attorno al ring – per frapporre una distanza tra l’azione e l’osservatore, non appena il rapporto tra i personaggi rende necessario vedere la scena per intero. È però il lato tragico a interessare maggiormente il regista, che infatti non dedica molto spazio alla celebrità dei Von Erich. Anzi, la sua ricostruzione modifica alcuni dettagli per sostenere una tesi. Ponendo Kevin al centro della storia, The Warrior racconta l’emancipazione di un giovane uomo dalla mascolinità tossica del padre, e il suo lungo cammino per sgravarsi da quell’eredità. Così, la libertà di piangere diviene l’apice di questo percorso: quando Kevin si abbandona al pianto, rassicurato dall’affetto dei figli, il giovane wrestler capisce di non dover più sopprimere le emozioni. Non è più un fratello, non è più nemmeno un figlio, ma è un padre. L’uomo nuovo nasce da questa diversa concezione della mascolinità, non più repressiva ma accogliente, e devota alla cura del prossimo.