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The Beekeeper, la recensione del film di David Ayer

Pubblicato il 10 gennaio 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Il Jason Statham Cinematic Universe è quel sottobosco del cinema d’azione dove l’implacabile attore inglese se ne va in giro a consumare vendette, spesso nascondendosi dietro professioni di facciata. D’altra parte, non dimentichiamo che Statham è anche sommozzatore, artista marziale, ex modello e tuffatore: di lavori quindi ne ha fatti parecchi, sempre con la faccia ingrugnita di uno che è stato tirato giù dal letto nel suo giorno libero. L’espressione non cambia nemmeno dietro il casco da apicoltore, ma The Beekeeper mette in chiaro che il granitico eroe ha le sue buone ragioni per essere incazzato col mondo.

Statham interpreta Adam Clay, uomo solitario e dal passato misterioso. Alleva api da miele sul terreno di Eloise Parker (Phylicia Rashad), signora dolcissima che gli ha affittato un capanno e lo tratta come un figlio. Ex insegnante, Eloise gestisce il fondo di un ente di beneficienza per bambini, ma perde tutto il denaro – compresi i suoi risparmi – quando subisce una frode su internet. Sconvolta e umiliata, la povera donna si suicida, ed è proprio Adam a trovarne il corpo. Sul posto giunge anche Verona (Emmy Raver-Lampman), figlia di Eloise nonché agente dell’FBI. Adam viene subito scagionato, ma la morte di quella persona gentile, l’unica che si sia mai presa cura di lui, lo spinge a tornare in azione: scopriamo così che Adam faceva parte dei Beekeeper, un’organizzazione clandestina che interviene a difesa delle strutture sociali costituite (o “alveare”, come lo chiamano loro). Né l’esercito né i servizi segreti possono competere con i Beekeeper, e infatti Adam si lascia alle spalle una scia di cadaveri mentre va a caccia della compagnia che ha truffato Eloise, al cui vertice c’è il ricco imprenditore dell’informatica Derek Danforth (Josh Hutcherson).

Stupisce un po’ vedere David Ayer alla regia di un film come questo, che rischierebbe di essere solo un generico action con Jason Statham se non fosse per l’assurda (ma divertente) idea degli apicoltori. Purtroppo Ayer ha perso un po’ la strada da quando si è dato ai blockbuster: i ruvidi polizieschi degli inizi – per non parlare del validissimo Fury, tra i migliori film bellici del decennio scorso – hanno lasciato il posto a cose come Suicide Squad e Bright, decisamente non all’altezza dello sceneggiatore di Training Day. Le scene d’azione però sa ancora gestirle, e inoltre bisogna riconoscergli il merito di circondarsi di ottimi collaboratori. Per intenderci, la fotografia di Gabriel Beristain (con cui aveva già lavorato in Street Kings) è ben più ricercata della media, e tenta quantomeno di diversificare la temperatura di ogni ambiente: dalla luce dorata della fattoria, si passa ai colori acidi e cupi delle cattedrali informatiche, per rendere ancora più palese il contrasto morale tra il “sotto” e il “sopra”.

In effetti, The Beekeeper non ci va tanto per il sottile. La sua visione del mondo rispecchia quella manichea di Adam, e finisce per esprimere il sogno reazionario dell’estrema destra americana. I Beekeeper operano autonomamente dal governo, sono slegati dalle istituzioni e affrancati dalle leggi: danno corpo all’utopia di un’entità che agisce nell’ombra, mantenendo sempre il controllo sullo status quo e garantendone la tenuta. Non a caso, quando Verona gli fa notare che esiste la legge per risolvere situazioni del genere, Adam pronuncia una battuta emblematica: «Avete la legge per queste cose finché non fallisce. Poi avete me». Come nella tradizione dei revenge movie da Il giustiziere della notte in poi, anche The Beekeeper scava un solco fra legge e giustizia, che non sempre coincidono.

Ad appesantire il film, però, non c’è solo questo alone reazionario. La sceneggiatura di Kurt Wimmer (che potreste ricordare per Equilibrium) è un po’ farraginosa nel concatenare le scene, e non ha il senso della misura quando traccia le gesta sovrumane di Adam o la sua ambiguità morale: l’apicoltore sostiene di non voler fare vittime inutili, ma trucida poliziotti e militari inconsapevoli senza problemi. Bisogna però riconoscere la dedizione di Wimmer nei confronti della sua gimmick: non si contano i giochi di parole («To bee or not to bee?») e i riferimenti verbali al mondo delle api, in questa lettura della società statunitense come un grande alveare. Peccato che sia difficile provare interesse per i personaggi, e che il brusco finale sia quasi straniante nella sua svogliatezza. Resta una premessa lievemente diversa dal solito, che esprime la distanza siderale tra l’americano medio e i guru della Silicon Valley, con un malcelato desiderio di tornare all’epoca pre-digitale. Conservatori fino in fondo.