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Perfect Days, la recensione del film di Wim Wenders

Pubblicato il 03 gennaio 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Ho appreso il significato di komorebi all’ombra di un faggio in un giorno d’estate. Non credevo esistessero parole per descrivere un’immagine tanto specifica, ma talvolta incontriamo persone che ci guidano negli angoli più remoti del mondo, ed è grazie a loro che scopriamo nuove strade. In giapponese, komorebi indica un fenomeno che conosciamo tutti: la luce che filtra tra le fronde di un albero. È un concetto incantevole, solo in apparenza banale. Ci induce a fermarci, e dedicarci alla contemplazione di un momento che può verificarsi ovunque, persino nella più cementificata e frenetica delle metropoli. Scorgere il sole che occhieggia tra le foglie significa vivere un istante sospeso, con lo sguardo rivolto verso l’alto, liberi dai fardelli che ci ancorano al terreno. Ed è tutto riassumibile in quattro sillabe cadenzate: komorebi, per l’appunto.

Ecco, Perfect Days è come quelle parole semplici che sanno esprimere idee molto articolate, al cui cospetto il linguaggio verbale spesso si arrende. Dà voce a un comune desiderio di quiete, e ci offre un riparo dal brusio del mondo senza creare illusioni di fuga. Hirayama, il protagonista del film di Wim Wenders, realizza infatti ciò che per molti di noi resta un’utopia: affronta la vita seguendo ritmi e tempi propri, avulsi da quelli che lo circondano. Lavora come addetto alle pulizie delle toilette di Tokyo, e durante la giornata si sposta da un quartiere all’altro con il suo furgone, ascoltando cassette di musica soul, folk e rock. Ha un collega molto più giovane, Takashi (Tokio Emoto), che non è altrettanto solerte nel lavoro, e pensa soprattutto a conquistare la sfuggente Aya (Aoi Yamada). Durante le pause pranzo, Hirayama si siede nel giardino di un tempio e fotografa le chiome degli alberi con una macchina fotografica compatta, i cui rullini fa sviluppare nel tempo libero.

Le sue giornate sono una catena di piccoli riti personali – la doccia in un bagno pubblico dopo il lavoro, la cena in una tavola calda in metropolitana, un libro da leggere prima di dormire – e si susseguono tutte uguali, immerse nella tranquillità di un uomo che non ha bisogno di accumulare stimoli per sentirsi soddisfatto. Durante i Perfect Days del titolo, però, scopriamo anche qualcosa di più sul suo passato, e Wim Wenders mette in chiaro un aspetto fondamentale: Hirayama ha scelto di vivere così. Se si trattasse di un obbligo determinato dalle sue origini socio-economiche, lodarne la vita semplice ed essenziale sarebbe ipocrita, paternalista; ma in questo caso si tratta di una scelta consapevole, come ci rivela il film. Il suo allontanamento volontario dagli agi e dalla frenesia (in altre parole, dall’ammasso di ricchezze e sollecitazioni sensoriali) richiama un passato fatto di tecnologie analogiche e immagini in bianco e nero, proprio come i frammenti onirici che fanno da tessuto connettivo tra una giornata e l’altra. Così, se i sogni di Fino alla fine del mondo erano distorsioni digitali che guardavano al futuro, quelli di Perfect Days sembrano quasi rievocare l’alba del cinema: si rivolgono a un passato rassicurante, fisso nel tempo e quindi immutabile, contrariamente all’imprevedibilità del futuro.

Le stesse audiocassette, in questo clima di recupero sempre più appassionato dell’analogico, suscitano un senso di comfort grazie ai loro suoni ovattati e imperfetti, lontanissimi dalla pulizia asettica del digitale. Non è un caso, peraltro, che la colonna sonora sia composta da brani come Pale Blue Eyes e Perfect Day di Lou Reed, (Sittin’ on) The Dock of the Bay di Otis Redding o Sunny Afternoon dei The Kinks: sono canzoni immortali e avvolgenti, ben radicate nel nostro immaginario collettivo, capaci di rievocare in tutti noi il ricordo di vite mai vissute. D’altra parte, non era stato proprio Wim Wenders a dire che l’America ci ha colonizzato l’inconscio?

Hirayama, con l’interpretazione sfumata e dolcissima di Kôji Yakusho, trova la felicità nella misura delle piccole cose, essendo allenato a vedere ciò che gli altri danno per scontato. Laddove il Philip Winter di Lisbon Story andava in cerca dei suoni di Lisbona, Hirayama si introduce tra le pieghe della città a modo proprio, e fissa su pellicola il bagliore del sole tra le foglie – ovvero il komorebi di cui si parlava all’inizio. Può contare su un numero limitato di scatti, ed è anche per questo che valorizza ogni singola foto. Tutto Perfect Days è una traduzione del mondo attraverso i suoi occhi, un invito a riscoprire la meraviglia nei dettagli apparentemente più marginali. E Wenders lo fa talmente bene, con una tale cura per le immagini e un tale amore per il suo eroe, da farsi perdonare anche il rischio di una visione stereotipata del Giappone, quella spirituale contrapposta alla smania tecnologica.

È un film capace di riallinearci con il mondo, o che quantomeno ci sprona a riscoprire l’armonia con tutte le cose, a porci in una condizione ricettiva nei confronti della realtà e di chi la abita. Se non c’è più nessuno a prenderci per mano e svelarcene i segreti, le minuscole gioie del quotidiano diventano la nostra guida ai suoi anfratti più nascosti; e ci insegnano che, pur restando aperti nei confronti dell’altro, possiamo comunque bastare a noi stessi.