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Foe ha dell’ottimo materiale, ma non sa che farsene

Pubblicato il 09 gennaio 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Lo scrittore Damon Knight diede una definizione molto puntuale della fantascienza, o quantomeno di cosa dovrebbe essere un racconto fantascientifico: «Una vicenda di esseri umani, con problemi umani, che non potrebbe verificarsi se non nelle circostanze espresse nei precisi assunti speculativi della vicenda stessa». In altre parole, il conflitto alla base della storia dev’essere scatenato da un elemento fantascientifico, senza il quale non esisterebbe alcun problema, alcun contrasto, alcuna evoluzione psicologica ed emotiva. Foe, basato sul romanzo Il nemico di Iain Reid, corrisponde pienamente a questi requisiti, ma li dissipa con la sua incapacità di gestire il racconto per immagini, nonostante gli evidenti sforzi del regista Garth Davis.

Si vede lontano un miglio che il cineasta australiano – già autore di Lion: La strada verso casa – ha studiato dalla connazionale Jane Campion, per cui ha diretto alcuni episodi di Top of the Lake all’inizio della sua carriera. Davis immagina un futuro che ha ben poco di avveniristico, ma sembra congelato in un dipinto di Grant Wood: pur essendo il 2065, infatti, il Midwest rurale di Foe è una cartolina dal passato, senza tecnologie prodigiose o stili di vita innovativi. I coniugi Henrietta (Saoirse Ronan) e Junior (Paul Mescal) abitano in una fattoria isolata, incupita dalla solitudine e dal collasso climatico, e coltivano colza per tutta la durata dell’anno. Intanto, l’umanità pianifica di colonizzare lo spazio per fuggire dalla Terra, ormai considerata irrecuperabile.

Una sera, un uomo chiamato Terrance (Aaron Pierre) si presenta da Junior e Henrietta dopo un lungo viaggio, e comunica loro che Junior è stato selezionato per il programma spaziale: dovrà quindi partire entro un paio d’anni, in vista di un prossimo trasferimento della coppia nello spazio. Junior non vuole, ma rifiutarsi è impossibile. Il governo ha già previsto tutto: durante la sua assenza, l’uomo sarà sostituito da una sorta di clone, con i suoi ricordi e la sua personalità, in modo che Henrietta non debba restare da sola. Nel frattempo, Terrance rimane con loro per osservarli e fare dei test.

Ciò che ne deriva è la spietata disanima di una crisi sentimentale, un po’ come Reid aveva già fatto in Sto pensando di finirla qui, trasposto in film da Charlie Kaufman nel 2020. Davis sembra però troppo occupato a citare I giorni del cielo per servire adeguatamente la storia, e l’ottima fotografia di Mátyás Erdély dipinge immagini suggestive ma vacue: le inquadrature che abbracciano la fattoria e le immense pianure del Midwest (in realtà si tratta dell’Australia) comunicano più il senso estetico del regista che l’isolamento di Henrietta, anche perché la loro insistenza finisce per anestetizzarne l’effetto. Eppure, l’idea di partenza è davvero buona. Il conflitto nasce dall’introduzione nella coppia di un fattore estraneo, il clone, e dalle sue conseguenze su Henrietta: il duplicato biologico di Junior è infatti “vergine”, libero dai condizionamenti della vita insieme, e in lui c’è ancora l’uomo di cui Henrietta si è innamorata. La fantascienza è sempre stata un ottimo strumento per le storie intimiste, come Foe dimostra quantomeno in potenza.

Purtroppo il film si perde in una sequela di confronti troppo esasperati, in scontri fisici e dialogici talvolta grotteschi, e comunque ripetitivi. “Show, don’t tell” dice un vecchio adagio della narrativa anglosassone, e Foe fallisce proprio in questo: invece di narrare per immagini il ritrovato idillio tra Henrietta e il marito/clone, ce lo spiega a parole in una scena chiave, solo per il gusto di piazzare il solito coup de théâtre. E fa ancora più rabbia se pensiamo che tutto poggia sulle spalle di Saoirse Ronan e Paul Mescal, coppia formidabile che ci crede moltissimo in questo progetto, ma meritava qualcosa di meglio. Un vero peccato, anche in virtù di un epilogo che invece funziona piuttosto bene, contrariamente a tutto il resto. L’impressione è di assistere a un soggetto che fatica a coprire le esigenze di un lungometraggio, o quantomeno non di questa durata. Il piglio artistoide stavolta non paga, e il passo contemplativo è più tedioso che ammaliante.