Cinema

Clerks dopo trent’anni rimane la cosa più bella degli anni Novanta

Pubblicato il 20 gennaio 2024 di Giulio Zoppello

Quando uscì Clerks, tutti rimasero a bocca aperta. Si capì che eravamo di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo, a immagine e somiglianza di una nuova epoca, di una nuova concezione di narrazione cinematografica. Pensate sia un caso che sia finito nella Biblioteca del Congresso? No. Gli americani su questo ci vedono benissimo e a trent’anni di distanza, Kevin Smith è ancora mito grazie a una commedia capace di cambiare tutto, per sempre, di diventare eredità universale pur essendo il film più specifico di sempre sugli anni Novanta.

Un film da 28mila dollari diventato mito transgenerazionale

Trent’anni di Clerks, di una delle commedie più rivoluzionarie e influenti nel panorama moderno, che di fatto aprì al decennio che sarebbe stato dominato non solo dalla comicità demenziale, ma anche dall’indie, da una nuova generazione di cineasti indipendenti. Erano come Kevin Smith, erano eterni adolescenti, cinefili, ma anche capaci di offrirci riflessioni mai banali, mai scontate su quel decennio, sulla loro generazione, la Generazione X, che si sentiva un po’ sperduta. Era stata privata di uno scopo, come poi un grandissimo autore come Chuck Palahniuk avrebbe sintetizzato in “Fight Club”, parlando di nessuna grande guerra, nessuna grande depressione, ma di una sensazione di solitudine, di lotta spirituale che andava dalla vita quotidiana a quella sentimentale, alla prospettiva di un futuro che non sarebbe mai stato veramente quello che si pensava. Smith creò Clerks come istant movie, era costato solo 28mila dollari, lo fece nel negozio dove lavorava ispirandosi alla sua vita. Roba da matti. Clerks anticipa e allo stesso tempo segue quella narrazione post-moderna che dal cinema alla televisione, a serie animate come I Simpson o South Park, ha reso gli anni ’90 l’apice della cultura Pop. Una cultura Pop che era anche controcultura, nel senso autoriale e non più commerciale del termine. Clerks parte da Dante Hicks (Brian O’Halloran) e Randal Graves (Jeff Anderson) i due commessi amici, uno più sensibile, depresso, meditabondo e insicuro, l’altro fuori di testa. Attorno a loro crea un universo di personaggi ridicoli, pazzeschi, eppure credibili, ci sono Veronica (Marilyn Ghigliotti) e Caitlin (Lisa Spoonauer), attuale fidanzata ed ex di Dante, che non sa che fare con loro. In questo turbinio di dialoghi assurdi, sketch, battute e situazioni paradossali, dialoghi incredibili, il film rimane ad oggi un capolavoro di scrittura situazionale, con la sua capacità di parlarci delle problematiche legate alla crescita, ai passaggi d’età, al dover decidere cosa si vuole fare veramente della propria vita. La cosa più strana a trent’anni da questo capolavoro, è come bene o abbia anticipato anche il perdurare delle tematiche adolescenziali nell’età adulta. Allo stesso modo, a dispetto della sua chiara connessione a quelli che oggi sono dei cinquantenni, rimane anche un film simbolo per la generazione Millennial, creando un legame indissolubile con la X, visto che entrambe hanno vissuto il passaggio dal XX al XI secolo, con tutti i traumi e tutte le problematiche ad esso connesse.

Una commedia capace di rappresentare un decennio atipico

Clerks sarebbe stato quello che è stato senza quel bianco e nero perfetto? E anche in questo, il film opera un’ottima desacralizzazione, che poi è la parola d’ordine di un racconto in cui trionfano le battute più sboccate, in cui si fa a pezzi il clima bigotto e perbenista della società americana, in un New Jersey dove non accade niente, dove si sogna in grande e si vive in piccolo. In quella videoteca e in quel Quick Stop Groceries, si palesano esemplari più disparati della società americana, dallo studente yuppie e poser, al venditore disonesto, dal vecchietto segaiolo ai giocatori di Hockey, fino all’ex con qualche leggero scheletrino negli armadi. Poi ci sono Jay e Silent Bob, figure che ci richiamano all’essenza grunge, punk di quegli anni, quando Kurt Cobain era ancora un profeta, quando gli anni ‘80 con il loro trionfalismo macho, il loro consumismo e le paillettes dorate erano mai passati di moda, tra camicie di flanella, jeans della Levi’s, e quella volontà di anarchia. Ma più ancora, Clerks funziona perché bene o male è la storia di un’amicizia che ondeggia su quella cosa che è scomparsa: la subcultura giovanile, inghiottita dalla tecnologia, dalla tecnocrazia, dall’identità digitale. Riguardare questo film trent’anni dopo, mette su una malinconia incredibile, non tanto per il tempo che passa, perché trent’anni fa magari eravamo tutti più giovani, pieni di speranze e sogni, spazzati via dall’11 settembre. Oggettivamente, ci ricorda che una volta la vita, la gioventà era più semplice, era più felice, era più spontanea. Non esiste commedia che non sia anche un grande romanzo agrodolce e Clerks lo è, dall’inizio alla fine, pur con tutte le sue follie. Dentro vi è il perdono, la volontà di guardarsi in faccia e dire le cose come stanno, la vita che non riusciamo a cambiare ma è lei che cambia noi, il fatto che una volta la virtualità era ciò in cui ci rifugiavamo per scappare dalla vita reale, oggi invece la vita reale è ciò in cui scappiamo per sottrarci alla vita virtuale. Ci sarebbero poi stati i seguiti, alquanto sbagliati, tronfi, operazioni commerciali senz’anima, ci sarebbe stato il proseguo della carriera di Smith, mai più tornato su questi livelli. Come poteva? Di base era una creatura degli anni ’90, il decennio dove apparivi e scomparivi perché il successo ti stava sulle palle, era il decennio dove alla fine a mandare a casa il teen pop commerciale e le operazioni di plastica, ci pensarono i Len, con “Steal My Sunshine” e i New Radicals con “You Get What You Give”. Clerks fu la loro versione cinematografica, arrivata e sparita come una farfalla, ma capace di rimanere dentro a chiunque, in quegli anni, gli anni 90, dove persino il cielo, anche se in bianco e nero, pareva più azzurro.