C’è un motivo se il calcio è lo sport più popolare al mondo. In termini amatoriali, il calcio può essere giocato praticamente ovunque, senza attrezzature specifiche né una grande preparazione, anche perché le regole di base sono molto semplici e intuitive. È quindi uno sport accessibile a chiunque, indipendentemente dalle condizioni economiche e dall’origine geografica, quantomeno nella possibilità di essere introdotti al gioco stesso e di sperimentarlo sulle proprie gambe. Il discorso cambia se si parla di calcio organizzato, dove politica ed economia creano discriminazioni che in origine non esisterebbero.
Chi segna vince di Taika Waititi accenna una riflessione in tal senso, a partire dal riscatto della nazionale delle Samoa Americane (territorio non incorporato degli Stati Uniti d’America nel Pacifico meridionale) dieci anni dopo la famigerata sconfitta per 31 a 0 contro l’Australia, il passivo più pesante nella storia della FIFA. Nel 2011, la federazione assume il tecnico Thomas Rongen – interpretato da Michael Fassbender – per rilanciare la squadra in vista delle qualificazioni alla Coppa del Mondo, ma l’impatto dell’allenatore olandese con l’isola non è dei migliori. Incapace di gestire la rabbia e segnato da una grave perdita, Thomas fatica a comprendere l’approccio rilassato dei samoani, che nel calcio vogliono soprattutto divertirsi. Il rapporto con il gioviale presidente Tavita (Oscar Kightley) e con la calciatrice fa’afafine Jaiyah Saelua (Kaimana) gli insegna però a guardare la vita in modo diverso: se perdere è inevitabile, tanto vale farlo insieme.
A questo proposito, Waititi e il co-sceneggiatore Iain Morris insistono molto sul ribaltamento della vecchia retorica occidentale. Chi segna vince non è la storia di un “salvatore bianco” che interviene per aiutare gli indigeni, bensì l’opposto: è Thomas a trovare salvezza e riscatto grazie all’esperienza samoana, elaborando un lutto che lo perseguitava da tempo. I dialoghi ce lo rammentano spesso, anche un po’ troppo, rischiando così di scivolare nel didascalico. Il paradosso è che, per questa ragione, non si percepisce bene quale sia l’effettivo contributo del tecnico olandese al miglioramento della squadra, testimoniato invece dai risultati successivi.
D’altro canto, a Waititi interessa soprattutto mettere in scena l’umorismo polinesiano, che usa l’autoironia per non prendersi sul serio. Già i suoi film precedenti – compresi i due Thor – esprimevano questo sguardo lieve e disincantato, ma Chi segna vince ne fa la propria ragion d’essere: se le Samoa Americane sono la nazionale peggiore del mondo (o almeno lo erano all’epoca), meglio scherzarci sopra. Il punto è che i samoani prendono realmente il calcio come un gioco, ed è qui che Rongen non riesce a entrare in contatto con loro. Da un lato c’è la gioia del giocare insieme, dall’altro lo stress della competizione e la freddezza delle politiche federali. Non a caso, il contrasto fra questi due mondi raggiunge il culmine quando la FIFA minaccia di espellere le Samoa Americane dalla federazione, giudicandole inadatte al calcio. Sono dimensioni che parlano lingue diverse, e Rongen deve imparare ad alleggerirsi dal peso delle aspettative e dei vecchi traumi per muoversi al passo dei samoani.
Waititi ha intenti nobili, vuole ricordarci l’importanza di prendersi il proprio tempo, godersi il presente e non cedere alla competitività esasperata che avvelena la società dei consumi. La realtà delle Samoa Americane, in effetti, è ritratta non solo come più rilassata, ma anche più inclusiva, soprattutto se pensiamo al caso di Jaiyah e delle fa’afafine, il “terzo genere” della cultura polinesiana: persone di sesso maschile alla nascita, ma che in seguito si identificano come non-binarie. Chi segna vince traccia anche il percorso di Rongen per comprendere questa sfumatura, e quindi ampliare i suoi orizzonti. Il limite, se mai, è che stavolta Waititi non riesce a trovare un equilibrio credibile fra dramma e commedia, poiché gli aspetti più emotivi sono marginalizzati e poco esplorati: il lutto di Thomas e il rapporto con l’ex moglie Gail (Elisabeth Moss) restano sullo sfondo, e l’evoluzione stessa del tecnico vive momenti contraddittori.
Il lato umoristico, preponderante sul resto, si nutre di quell’improvvisazione tanto cara al regista neozelandese, anche se le gag non sempre vanno a segno. Il suo maggior pregio è nella ricerca di una purezza spirituale ed espressiva, un po’ retorica ma sincera, basata sulla solidarietà umana tra “perdenti”. Quando Thomas dice a Tavita che vincere gli sembra impossibile, il presidente della federazione samoana gli risponde serafico: «E allora perda. Ma non perda da solo, perda con noi». Perché imparare a perdere è molto più difficile, e forse anche più istruttivo, che imparare a vincere.