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Rebel Moon, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 18 dicembre 2023 di Roberto Recchioni

Ci sono varie maniere per inquadrare Rebel Moon, il nuovo lungometraggio di Zack Snyder, realizzato per Netflix.
La prima è quella di vederlo come il corrispettivo snyderiano della navicella del Bender di Futurama, quella che vuole costruire con black jack e squillo di lusso (anzi, senza navicella e senza black jack). Perché dopo il (prevedibile) rifiuto della Disney-Marvel a lasciare giocare il regista con l’universo creato da George Lucas, Snyder ha proprio detto: “Non mi fanno fare Star Wars? Nessun problema, me ne farò uno tutto mio. Alla mia maniera!” e, grazie a Netflix che gli ha dato un mucchio di soldi e una libertà creativa illimitata, lo ha fatto davvero, infarcendo la sua galassia lontana, lontana, di tutti i suoi stilemi e ossessioni: dalle donne guerriere (sempre bellissime e sessualizzate in ogni frangente) alle epiche e spettacolari scene di combattimento di massa, dai “Kodak moment” alla Terrence Malick, ai rallenty insistiti, dagli attori che gli sono restati vicini nei momenti difficili della sua vita (certe volte per puro interesse, vero Ray Fischer?) a una certa bussola morale distorta dei suoi personaggi, da un gigantismo produttivo alla consueta superficialità della scrittura. Insomma, Zack Snyder in tutto e per tutto, nei suoi punti di forza (molti) e nelle sue debolezze (moltissime) e, soprattutto, nella sua visione autoriale e senza compromessi del blockbuster moderno.
Va però detto che inquadrare Rebel Moon solo da questo punto di vista, sarebbe fargli un torto, perché non è solamente il giocattolo di un regista arrabbiato che, cavalcando la tigre di Netflix, vuole fargliela vedere a tutto quel sistema hollywoodiano che ha cercato di marginalizzarlo, ma è decisamente di più.

Il primo aspetto da valutare è che è una nuova IP (Intellectual Property, Proprietà Intellettuale).
Non è tratto da qualcosa, non è il sequel, il prequel o il reboot di qualcosa. Già solo per questo, di questi tempi dove non si rischia e si crea niente, dovrebbe essere premiato per il coraggio.
Ma, sia chiaro, non è il coraggio suicida di un gruppo di pazzi ma un’operazione ben studiata, almeno sulla carta. E qui veniamo al secondo aspetto da prendere in considerazione nella valutare il film: è un’operazione produttiva (e commerciale) pienamente consapevole.

Lasciate che mi spieghi.
Il discorso è semplice: sul finire degli anni settanta, George Lucas ha creato una mitologia moderna mescolando e predando le cose che amava. Non è difficile, infatti, ritrovare nel primo Star Wars lo stesso impianto narrativo de La fortezza nascosta di Akira Kurosawa, e molte delle soluzioni registiche del regista giapponese, allo stesso tempo, non è complicato vedere il debito del film con le saghe letterarie di Dune (Frank Herbert) e di John Carter di Marte (Edgar Rice Burroughs), con i fumetti di Flash Gordon di Alex Raymond, con i film western di John Ford e con le pellicole belliche (specie quelle aeree) ambientate sulle acque del Pacifico, durante la Seconda Guerra mondiale. Oggi l’approccio di Lucas verrebbe definito postmodernista ma, nel 1977 il termine non era stato ancora sdoganato nella cultura di massa e nessuno ha appiccato questa etichetta al suo lavoro. Comunque sia, Snyder fa esattamente la stesse operazione e lo fa intenzionalmente, ripercorrendo i passi di Lucas uno a uno, aggiungendo qualcosa o aggiornandolo: prende un altro capolavoro di AAkira Kurosawa (in questo caso, I sette samurai), lo contamina con la fantascienza (di nuovo Dune ma pure Star Wars stesso, Warhammer 40.000), lo mescola con i fumetti (ma questa volta sono i manga il riferimento e il lavoro di Yoshitaka Amano in particolare) e al posto dei war movies, guarda ai videogame, in particolare alla saga di Halo e di Mass Effect.

Quindi, mi sembrano abbastanza inutili le critiche che stanno fioccando attorno al film perché “troppo derivativo di Star Wars”: Star Wars stesso era terribilmente derivativo e Snyder non fa altro che ripetere la stessa cosa fatta da Lucas e da molti altri dopo di lui (su tutti, le sorelle Wachowski e Quentin Tarantino). Semmai, quello che si può criticare non è il “cosa fa”, ma il “come lo fa”.
E qui c’è poco da dire perché la risposta è l’unica possibile: alla sua maniera. Insopportabile per taluni, fantastica per altri. Il film ha tutti, ma proprio tutti, i difetti del classico approccio di Snyder a una storia: i personaggi (specie quelli positivi) mancano di carisma e identità, sono vuoti e, a tratti, insopportabili. Lo sviluppo narrativo è faticoso, manca di fluidità e scorrevolezza e ogni momento di transizione da una scena spettacolare all’altra, è macchinoso e poco sentito.

Il coivolgimento emotivo è, di conseguenza, scarso, e capita spesso di alzare il sopracciglio sull’idea di “eroe positivo” che Snyder porta in scena. Altra nota di demerito, l’immaginario visivo è pieno di roba pescata in giro e accostata senza troppa coerenza tra elementi bellissimi e roba da discount dell’immaginifico. Di contro, il film è pieno di immagini ricercate e sequenze visivamente potenti e, in alcuni casi, anche molto ispirate, sia nei momenti spettacolari che in quelli intimi (per quanto si possa definire “intimo” qualcosa che porta la firma di Zack Snyder). Le scene d’azione sono belle (meglio quelle di massa che le schermaglie), gli effetti speciali digitali sono adeguati (ma ricordiamoci che questa è una produzione per una piattaforma casalinga, non per il cinema) e il cast, tutto sommato, fa quello che può con i personaggi che si ritrova per le mani (nota di merito per Ed Skrein che porta a schermo un cattivo davvero cattivo). Sopratutto, il senso di “epico, millenario e apocalitto” che pervade ogni film di Zack Snyder c’è e c’è a piena potenza.

E qui veniamo alla conclusione: Rebel Moon è un buon film? Probabilmente, se lo guardiamo come puro prodotto, no. Perché, nonostante sia una pellicola costruita a tavolino per replicare un meccanismo rodato e di successo, non funziona davvero come dovrebbe funzionare, non appaga come dovrebbe e non crea quel senso di coivolgimento necessario per costruire un vero legame con il pubblico.
Ma se lo guardiamo come un film autoriale, come un “blockbuster d’autore”, Rebel Moon diventa un’altra cosa: la sfida di un regista ribelle a un sistema che omogeneizza e rende innocuo tutto.

È una pellicola estrema, incapace di mediare tra le necessità e i demoni di chi l’ha creata e i gusti del pubblico di massa, eccessiva, squilibrata e, a conti fatti, sbagliata. Ma “estremi, incapaci di mediare tra le necessità e i demoni di chi li ha creati e i gusti del pubblico di massa, eccessivi, squilibrati e, a conti fatti, sbagliati” erano pure i film del tardo Sam Peckinpah (altro ribelle senza causa del cinema americano) e io li amo nonostante questo. Anzi, forse, li amo proprio per questo.
E, per lo stesso motivo, mi sento di dire che amo questo Rebel Moon, che non è un buon film lo ripeto, ma che almeno ci prova ad andare in direzione opposta e contraria. E, a tratti, lo fa anche bene.

Rebel Moon – Parte 1: Figlia del Fuoco è in arrivo solo su Netflix dal 22 dicembre. La seconda parte, Rebel Moon Parte 2: La Sfregiatrice, arriverà nell’aprile del 2024.