Quando uscì, Mississippi Burning divise moltissimo la critica e l’opinione pubblica dell’epoca. Ispirato all’omicidio di tre attivisti del Movimento per i Diritti Civili, in realtà il film di Alan Parker si allontanò molto dalla verità degli eventi accorsi in quel 1964, quando tre ragazzi furono uccisi dal Ku Klux Klan con la complicità delle Forze di Polizia locali. Da quell’evento, il film creò un perfetto thriller poliziesco, su cui però molti puntarono il dito con accuse di mistificazione e parzialità. Dopo 35 anni qual è la risposta?
La morte di James Earl Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner, freddati a colpi di pistola nella Contea di Neshoba, in Mississippi, durante la cosiddetta “Freedom Summer”, scosse profondamente l’America dell’epoca. Persino l’allora Direttore dell’FBI, il famigerato J. Edgar Hoover, notoriamente razzista e ultraconservatore, fu costretto ad inviare l’FBI ad indagare, vista la scarsissima collaborazione del Governatore e delle forze di indagine locali. Come si scoprì infatti, lo stesso Sceriffo era coinvolto nell’omicidio dei tre, e Mississippi Burning (che prese il nome dell’inchiesta lanciata dall’FBI) fin dall’inizio cercò di ricreare con incredibile meticolosità, il clima di xenofobia, neofascismo, razzismo e la divisione radicale in atto in quel Sud, dove essere nero era una condanna. Mississippi Burning aveva come protagonisti due agenti dell’FBI: Rupert Anderson (Gene Hackman) e Alan Ward (Willem Dafoe). Anderson è più violento, scafato, cinico, i suoi metodi sono poco ortodossi ma efficaci. Ward invece è idealista, sensibile, si sente coinvolto profondamente dalla tragedia degli afroamericani, ed i suoi contrasti con Anderson sono il pane quotidiano di un percorso votato anche all’amicizia virile, dove alla fine però proprio piegando le regole i due otterranno qualche risultato. Il film si fa forza di villain perennemente sopra le righe: il Sindaco Tilman (R. Lee Ermey), il leader del KKK Clayton Townley (Stephen Tobolowsky), Frank Bailey (Michael Rooker) e Lester Cowens (Pruitt Taylor Vince) i due killer, lo Sceriffo (Gailard Sartain) e il suo Vice (Brad Dourif). Ma la moglie del vicesceriffo, Pell (Frances McDormand) si rivelerà la chiave per arrivare alla verità. Mississippi Burning, infatti, ci fa precipitare in un clima di terrore e di morte unico, ributtante, in cui il male ha un volto lungi dall’essere affascinante. Al contrario Parker ci dona uno spaccato della mediocrità più brutale, dominante, la stessa di quell’America che poi Spike Lee in BlacKkKlansman avrebbe messo alla berlina ma sol parzialmente. Perché, ed è questo il punto fondamentale, non molto è cambiato in certe contee dal 1964 e neppure dal 1988, anno in cui Mississippi Burning divise critica, pubblico, politica, diventò il film dell’anno. Ma era un film perfetto? No.
Il primo problema riguarda il fatto che Mississippi Burning storpia la realtà per creare un happy end che di fatto non ci fu. Dei 14 imputati solo 7 furono condannati ma per reati minori, di fatto il delitto rimase impunito. A dispetto della bellissima interpretazione di Frances McDormand e della chimica con quel Gene Hackman che la guida verso una libertà che è anche redenzione (e che fruttò ad entrambi la candidatura agli Oscar), in realtà fu uno degli esecutori del delitto a diventare talpa per i federali. Federali che non furono mai i crociati che Mississippi Burning mostra. Hoover ebbe per tutta la vita rapporti con il Klan, così come con i Cavalieri del Cerchio d’Oro e altre organizzazioni beneficiarono da Hoover di appoggi, aiuti e furono coinvolti in numerose operazioni contro Martin Luther King e ogni movimento antisegregazionista. Di base l’FBI fu costretta a fare la mossa per placare l’opinione pubblica. Nel film poi non vi è un solo, singolo, protagonista afroamericano, la comunità è descritta come passiva, vittimizzata. Significa che Mississippi Burning è un cattivo film? No. Funziona benissimo come poliziesco, ci dona un ritratto perfetto della mentalità sudista, ci fa comprendere l’impunità e l’omertà di quel mondo, di quell’America lontana dalla modernità, bianca, bigotta e fanatica. Ma rimane la scarsa aderenza alla realtà, che lasciò i parenti delle vittime stravolti, la sindrome da “white savior”, già fuori tempo massimo nel 1988. Eppure, non si può negare che Alan Parker abbia fatto ciò che in fin dei conti fecero Coppola o Stone con Apocalypse Now e Platoon, ciò che fece Spielberg con Amistad: creare una narrazione non fedele ai fatti per donarcene una fedele alla Storia in senso ampio. Criticabile se si vuole, ma indubbiamente efficace, coerente, perfetto per far arrivare al pubblico generalista il grande tema del razzismo e delle violenze sofferte dagli afroamericani all’epoca, della loro terribile condizione quotidiana. Un film non è un documentario, di questo dobbiamo sempre ricordarci, e le logiche di Hollywood sovente sono distanti da ciò che può sembrarci giusto. Vale per Napoleon oggi, valeva per Mississippi Burning 35 anni fa.