Cinema

Big Fish: i 20 anni della lezione di vita di Tim Burton

Pubblicato il 10 dicembre 2023 di Giulio Zoppello

Big Fish a vent’anni di distanza rimane uno dei titoli più interessanti e atipici della narrazione burtoniana. In quel 2003 il regista di Edward Mani di Forbice fu coinvolto nella trasposizione del celebre romanzo fantasy di Daniel Wallace. Il risultato fu un film sorprendente per iter ed atmosfera, per stile e per la capacità da parte di Burton di disegnare un’odissea personale in grado di affrontare una molteplicità di tematiche in modo tanto puntuale quanto imprevedibile.

Il racconto di una vita a metà tra fantasia e realtà

Big Fish compie vent’anni. Pare solo ieri che la critica e il pubblico all’uscita dalle sale lodavano questa strana variazione stilistica del gothic director per eccellenza, quel Tim Burton che per una volta, non si avvalse del suo attore feticcio, quel Johnny Depp che era ancora perso dentro i panni di Jack Sparrow. Fu Ewan McGregor, all’epoca per tutti Obi-Wan Kenobi, a reggere in parallelo con un grandissimo Albert Finney, l’onere di rendere Edward Bloom, qualcosa di più di una sorta di freak. Compito non facile, soprattutto perché il libro di Daniel Wallace, era molto distante per struttura e stile narrativo da una possibile diegesi cinematografica. Fu necessario un bel processo di gestazione, che vide Steven Spielberg lasciare la nave per dirigere Prova a Prendermi e la Columbia infine virare su Burton, forte della sceneggiatura assolutamente equilibrata scritta da John August. Big Fish partiva dal difficilissimo rapporto tra Will Bloom (Billy Crudup) e suo padre Edward (Ewan McGregor/Albert Finney) che pure se ormai in fin di vita a causa della malattia, continua a raccontare la propria vita quasi fosse una sorta di odissea fantasy popolata di strane e curiose creature. Ciò in passato ha fatto sì che Will rompesse ogni legame con il padre nel giorno del proprio matrimonio, ma l’insistenza con cui Edward popola il proprio vissuto di Giganti, Pesci mitologici, streghe, lupi mannari, sirene, gemelle siamesi, imprese guerresche e grandi avventure, lo porta per la prima volta a mettere in dubbio il proprio sguardo severo e cinico sul genitore. Big Fish si muove con una grazia elevata dalle bellissime musiche di Danny Elfman (che rendono il film un meta-musical) e la fotografia di Philippe Rousselot. L’insieme è charmant e assieme favolistico, elemento in realtà assolutamente centrale nella finalità narrativa dell’insieme. Perché Tim Burton vent’anni fa, ci consegnò in realtà una sorta di ricostruzione del percorso dell’eroe in senso mitologico, ma anche un’analisi sulla diversità del singolo, sul rapporto padre-figlio e soprattutto su quanto la verità fattuale sia infine sopravvalutata.

Un film capace di ricordarci l’importanza dell’empatia

Ewan McGregor e Albert Finley furono scelti perché molto simili come attori, non solo perché plausibili nei tratti somatici. Ed infatti Big Fish ha dalla sua una credibilità del protagonista che trascende la dimensione spazio-temporale atipica, con i continui flashback, il vagare di Edward in un’America che pare sbucata da una sorta di ucronia, con la Guerra di Corea che diventa una strana avventura da fumetto d’annata, il Circo, le misteriose città e strani personaggi che paiono guidarlo verso un cammino enigmatico, altro non sono che lo strumento attraverso il quale comprendere il senso della vita. E il senso della vita è che essa va vissuta senza esitazioni e senza tentennamenti. Big Fish è un film in cui August e Burton, riescono a fondere sia una visione personale che universale del tema del rapporto padre-figlio, gestito non semplicemente come incomunicabilità generazionale, ma come difficoltà dell’apprendimento empatico. Will è razionale, fin troppo, non comprende che ciò che suo padre sta cercando di fargli capire da sempre, è che le cose non sono bianche o nere, ma differiscono a seconda del proprio punto di vista. Nulla nel suo percorso è stato banale come non lo sono stati i personaggi che lo abitavano, o le sue storie d’amore. Solo alla fine, con il padre reso quasi impotente da un ictus, Will capisce che ciò che contava non era il suo punto di vista sugli eventi, ma ciò che essi avevano significato per Edward e la conclusione che lui “inventa” è in realtà perfettamente coerente con ciò che ha sentito per tutta la vita. Big Fish vanta quindi una struttura narrativa a metà tra metafora e road movie esistenziale, dove Burton non rinuncia però al suo tocco magico, in cui la fabula cinematografica dal sapore europeo, si incrocia anche con un elogio dell’american dream, votato però più all’altruismo che al successo meramente personale. Al funerale del padre, Will scoprirà che in realtà molta della fantasia che egli ha udito era una leggera modifica di una realtà oggettiva, altro elemento straniante con cui Big Fish si è fissato nell’immaginario collettivo nel ricordarci che la fantasia non è un placebo con cui compensare una vita arida, ma il filtro emotivo con cui interpretarla.

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