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Aquaman e il regno perduto, la recensione

Pubblicato il 20 dicembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

È singolare che l’esperienza del DC Extended Universe si chiuda proprio con Aquaman, l’eroe più redditizio di questo universo narrativo. Il primo film uscì però in un momento storico molto diverso per Hollywood: nel 2018 i cinecomic dominavano il mercato, e la via marvelliana ai blockbuster era una scommessa sicura, anche per la rivale DC. Oggi, invece, il pubblico sembra condividere una certa stanchezza non tanto per i supereroi in sé, ma per un modello cinematografico che reitera i soliti schemi tecnici e narrativi, dove il manicheismo delle fiabe si unisce all’abuso di un digitale stantio, affrettato da tempi realizzativi molto serrati. In tal senso, Aquaman e il regno perduto giunge forse nel momento più infausto (come il recente The Marvels), anche se cerca di fare il suo lavoro nel modo più onesto possibile.

James Wan ha la mano giusta per fare un buon cinema delle attrazioni ai tempi della CGI, perché sa gestire l’azione nell’impalpabilità dei green screen e delle creature digitali, a riprova di come gran parte di un film del genere nasca in post-produzione. Peraltro, la sceneggiatura di David Leslie Johnson-McGoldrick si sforza di mettere subito al centro il lato umano della vicenda: Arthur Curry (Jason Momoa) non è più soltanto un eroe spaccone e muscolare, ma un padre che trascorre più tempo in superficie che sott’acqua, nonostante sia il Re di Atlantide. Proprio come lui, il figlio neonato Arthur Jr. è in grado di comunicare con le creature marine, e il film gioca moltissimo su questo legame maschile trans-generazionale: dato che Mera (Amber Heard) è spesso impegnata ad Atlantide, il bambino trascorre la maggior parte del suo tempo con suo padre e con il nonno Tom (Temuera Morrison), che crebbe il piccolo Arthur da solo.

I problemi sorgono quando Black Manta (Yahya Abdul Mateen II) sfrutta le ricerche del Dr. Stephen Shin (Randall Park) per trovare la tecnologia atlantidea che gli permetterebbe di riparare la sua tuta, e si imbatte nel Tridente Nero: un manufatto dai grandi poteri, appartenente al Re di un regno perduto, che lo rende molto più forte di prima. Per alimentare la tecnologia di questo regno, Black Manta ha bisogno dell’Oricalco, un antico combustibile che produce grandissime quantità di gas serra, accelerando il surriscaldamento globale. Arthur capisce quindi che, se vuole fermare il nemico e salvare il pianeta, deve chiedere aiuto a suo fratello Orm (Patrick Wilson), l’unico capace di rintracciare Black Manta in virtù della loro vecchia collaborazione.

Com’è facile intuire, la difficile alleanza tra i due rivali attinge a piene mani dai buddy cop degli anni Ottanta e Novanta (soprattutto Tango e Cash, per stessa ammissione di Wan), mentre il primo film traeva ispirazione dalle avventure romantiche di quella stessa epoca, in particolare Alla ricerca della pietra verde. Il regista malese guarda anche ai classici dell’orrore, come fa spesso – seppure in modo diverso – nei suoi film horror: il sottomarino, le armi e le uniformi del “regno perduto” omaggiano Terrore nello spazio di Mario Bava, ma c’è persino un pizzico di Ray Harryhausen nei mostri di questo cinecomic, al punto che – in una piccola scena verso la fine – i cefalopodi meccanici degli antagonisti sembrano animati a passo uno. Il suo approccio ai blockbuster, insomma, è ricco di quel medesimo citazionismo post-moderno che caratterizza Hollywood da decenni, pur avendo il merito di pescare riferimenti non così scontati (e mai troppo urlati).

D’altra parte, il rapporto conflittuale fra Arthur e Orm funziona bene perché i due personaggi sono radicalmente opposti: dove Aquaman è sanguigno e istintivo, l’ex Ocean Master è rigido, razionale e ligio al protocollo. Gli scambi più interessanti sono proprio quelli in cui emerge la fedeltà di Orm ad Atlantide e ai suoi rapporti diplomatici con gli altri regni, mentre Arthur segue più il cuore e il suo codice morale. Aquaman e il regno perduto forma così un dittico piuttosto coerente con il primo film: considerati nel loro insieme, i due capitoli tracciano l’evoluzione del rapporto tra i fratelli, e anche lo sviluppo di Black Manta in una minaccia più grande. In effetti, il sequel non prende nemmeno in considerazione il quadro più ampio del DC Extended Universe, sia perché consapevole della sua fine (quantomeno ai tempi dei reshoot) sia perché il mondo di Aquaman basta a sé stesso.

Ciò che ne deriva è un blockbuster ecologista, influenzato dalla preoccupazione per il surriscaldamento globale (che rielabora in veste fantastica con l’espediente dell’Oricalco) e promotore della fratellanza tra i popoli. Diverte di più nelle scene sottomarine e negli scontri fra Aquaman e Black Manta, ma la CGI arranca nelle ambientazioni terrestri, dove i panorami digitali in green screen appaiono posticci; problema costante in quel di Hollywood, come ormai sappiamo bene. Resta l’impressione di un cinema ormai avviato sul viale del tramonto, frutto di un modello che sta cercando di evolversi in altre direzioni, cambiando almeno in parte il suo immaginario di riferimento. Sarà interessante vedere se James Gunn, incaricato di rilanciare il DC Universe su piccolo e grande schermo, riuscirà a proporre uno sguardo alternativo sul racconto supereroistico, e se qualcosa del vecchio DCEU sopravvivrà al cambiamento. Dal canto suo, Aquaman e il regno perduto è l’ultima eredità della gestione precedente, e si sforza di onorare l’impegno in modo professionale, chiudendo questo universo narrativo con una nota di speranza per il pianeta.