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The Old Oak, la recensione del film di Ken Loach

Pubblicato il 16 novembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

C’è una frase che sintetizza bene le aspirazioni sociali di The Old Oak, in barba a qualunque accusa di didascalismo: «Questa è solidarietà, non carità». La pronuncia TJ Ballantyne (Dave Turner), proprietario dell’eponimo pub nella cittadina mineraria di Easington, nel nord dell’Inghilterra. Lontana dai centri del potere, Easington si è immiserita dopo la chiusura della miniera, e l’Old Oak (“Vecchia Quercia”) è l’ultimo luogo di ritrovo rimasto per la popolazione locale, sempre più povera e incattivita dalla situazione. Soltanto Ken Loach – al contrario dei governi che si sono succeduti in Inghilterra – sembra essersi ricordato di lei, ma non si limita a raccontarne il disagio e l’isolamento: in quello che potrebbe essere il suo ultimo film, l’ottantasettenne maestro inglese riporta alla luce il filo rosso che collega gli oppressi di tutto il mondo, e ci lascia un’eredita difficile da raccogliere sul piano cinematografico, ma che quantomeno dobbiamo onorare nel nostro impegno civile.

Quel filo rosso risulta evidente nel 2016, anno in cui Easington ospita varie famiglie di profughi siriani. L’accoglienza è pessima: i locali non gradiscono i rifugiati stranieri, e la giovane fotografa Yara (Ebla Mari) ne subisce le conseguenze quando un uomo le sottrae la fotocamera, rompendola. La ragazza parla bene inglese, e fa amicizia con TJ, che impegna le vecchie macchine fotografiche di suo padre per pagare la riparazione. Mentre gli avventori del pub si lamentano dei nuovi arrivati, TJ racconta a Yara del glorioso passato di Easington, fatto di grandi lotte sindacali e fratellanza tra lavoratori. La sala sul retro del locale veniva usata per feste e semplici ritrovi, dove la gente mangiava insieme perché «When you eat together, you stick together» («Quando si mangia insieme, si resta uniti»). La sala è rimasta chiusa per anni, ma una delle cooperanti propone di riaprirla per organizzare dei pranzi in cui le famiglie di Easington e quelle siriane possano stare insieme, conoscersi, solidarizzare. L’idea piace, ma deve fare i conti con l’intolleranza dei clienti fissi.

La sceneggiatura di Paul Laverty, giunto alla diciassettesima collaborazione con Loach, scava fino alle radici di tale intolleranza, dipingendo il ritratto di una classe lavoratrice abbandonata a sé stessa, martoriata dagli speculatori immobiliari e privata delle sue antiche certezze: in primo luogo la forza del numero, poiché buona parte della popolazione ha lasciato la città dopo la chiusura della miniera. Al contempo, però, Loach e Laverty non fanno sconti. The Old Oak sottolinea infatti il fallimento morale di chi non riconosce lo straniero come proprio fratello, nonostante le esperienze comuni di sofferenza e oppressione: la guerra tra poveri non serve a nessuno, se non al potere.

Si ritorna così alla battuta iniziale, «Questa è solidarietà, non carità». Mentre la carità è un dono concesso dall’alto che implica una gerarchia tra chi dà e chi riceve, la solidarietà è egualitaria, basata sull’unione tra pari. Non ci sono rapporti di subordinazione nella sala dell’Old Oak, ma il semplice desiderio di fare gruppo, arricchendosi nel contatto con l’altro. In un mondo sempre più povero di luoghi per socializzare (lo vediamo anche nelle nostre città e nelle nostre provincie), Loach ci ricorda l’importanza di condividere uno spazio, di esserci gli uni per gli altri nello stesso posto e nello stesso momento. Una solidarietà che supera persino le barriere linguistiche, nelle tavolate chiassose come nel silenzio di una cucina, quando TJ vive un lutto straziante: «A volte nella vita non c’è bisogno di parole, solo di cibo» dice la madre di Yara portandogli da mangiare. È il cibo come forma primaria di cura, l’emblema del prendersi cura degli altri. Non solo la soddisfazione di una necessità vitale, ma un gesto di vicinanza e conforto.

The Old Oak, in effetti, sa essere anche struggente, poiché il passato e il presente di TJ sono ricchi di disillusione e rimpianto («Se i lavoratori si rendessero conto del potere che hanno, cambierebbero il mondo» dice a Yara mostrandole gli scatti delle vecchie manifestazioni. «Ma non l’abbiamo mai fatto»). Eppure, la componente sentimentale non è mai preponderante o ricattatoria, perché intrecciata con la componente sociale: senza l’una non esisterebbe l’altra. Ed è proprio grazie a questo equilibrio che il film riesce a toccare corde delicatissime, parlando al cuore di chiunque si sia mai sentito escluso, isolato o discriminato. Se fosse davvero l’ultimo film di Ken Loach, dimostrerebbe una volta di più la strenua coerenza del suo percorso artistico e politico, lontano da ogni compromesso che ne minerebbe l’onestà. C’è l’amarezza di un uomo che ne ha viste tante, e che osserva un presente funestato dalle divisioni sociali, dove la base fatica a restare compatta; eppure, c’è anche la speranza di un regista che usa il cinema non solo per mostrare il mondo com’è, ma come dovrebbe essere. Dargli ascolto è compito nostro.