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Silent Night, la recensione del film di John Woo

Pubblicato il 28 novembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

La macchina da presa sorvola il quartiere periferico di una grande città, avvicinandosi lentamente a un palloncino rosso che fluttua verso l’alto, sfuggito al suo proprietario. Il palloncino è una goffa creazione digitale, tanto più straniante se paragonato al contesto urbano sullo sfondo, dove si sta consumando una sparatoria tra due auto in corsa. Mentre il titolo di Silent Night compare sullo schermo, tornano in mente le dichiarazioni di John Woo ai tempi di Paycheck, nel 2003, quando disse di preferire il lavoro degli stuntmen e gli effetti on camera alla CGI: ecco, quel palloncino riassume proprio il contrasto fra l’artigianalità del cinema di Woo e le esigenze di una produzione americana, peraltro con risorse abbastanza limitate. Succede altre volte nel corso del film, soprattutto durante l’azione, e l’esito non è molto diverso.

La verità è che, rispetto ai suoi film degli anni Novanta e primi Duemila, il ritorno in America del regista hongkonghese avviene più in sordina, come se il cinema hollywoodiano avesse ormai digerito le lezioni del grande maestro. In effetti, la Hollywood degli ultimi anni preferisce rivolgersi ai talenti locali, e sente meno l’esigenza di guardare a Oriente per rinnovare il genere action. Registi come Chad Stahelski e David Leitch traggono ispirazione proprio dai film di Hong Kong, segno che la loro generazione è stata allevata da Johnnie To, da Ringo Lam e dallo stesso John Woo, per citarne alcuni. Ciononostante, un vecchio volpone del suo calibro ha ancora qualcosa da insegnare agli allievi statunitensi, come dimostra – pur con alcuni limiti – questa sua nuova regia.

La trama di Silent Night rievoca i celebri vigilanti degli anni Settanta, da Il giustiziere della notte al Punitore della Marvel, e non ne supera di molto le premesse basilari. Godlock (Joel Kinnaman) è un uomo tranquillo, sposato con Saya (Catalina Sandino Moreno) e padre di un bimbo piccolo (Anthony Giulietti). Alla vigilia di Natale, una sparatoria tra bande sconvolge il quartiere in cui vivono, e il figlio viene ucciso da una pallottola vagante. Godlock si lancia all’inseguimento dei criminali, ma lo spietato Playa (Harold Torres) gli spara alla gola e fugge via. Reso muto dalla ferita, l’uomo comincia ad allenarsi per preparare la sua vendetta: ha intenzione di scatenarla proprio alla vigilia di Natale, un anno dopo la morte del figlio.

Insomma, John Woo riporta il vengeance movie al grado zero, ma con una variante: il film è quasi privo di dialoghi, e si affida interamente alle immagini, alla musica e alle battute di sottofondo. Ben lungi dall’essere un espediente gratuito, il relativo “mutismo” di Silent Night esprime un’incapacità tutta maschile di comunicare le emozioni, non solo in termini verbali. Godlock è chiuso nel suo dolore, trascura la moglie e il lavoro, si addestra in modo ossessivo ed è tormentato dal ricordo del figlio perduto: l’unico modo che conosce per sfogare la sua sofferenza è attraverso la vendetta. Non c’è alcuna elaborazione del lutto nella sceneggiatura di Robert Archer Lynn, poiché Godlock sceglie di non elaborarlo. Invece di lavorare su sé stesso (e quindi a un livello interiore), preferisce agire sul prossimo (e quindi a un livello esteriore). È un meccanismo comune a tutte le storie di vendetta, ma l’assenza di dialoghi lo problematizza ulteriormente, lo rende il cuore della vicenda.

Non a caso, quando l’azione esplode nel terzo atto è una liberazione anche per noi spettatori, dopo aver seguito il lungo addestramento del protagonista. Non c’è però una vera e propria catarsi, al contrario: Woo ci ricorda che la vendetta è un affare brutto, sporco e cattivo, inevitabilmente proiettato verso l’autodistruzione. Siamo lontani dalla coolness patinata di John Wick, dove l’estetizzazione della violenza produce risultati algidi e meccanici, soprattutto nel quarto capitolo. In Silent Night l’azione è caotica e feroce, mentre le gesta di Godlock sono immerse in un clima febbricitante che suscita dubbi sulla sua sanità mentale. D’altra parte, il dramma permette a Woo di coltivare la sua passione per il melò, con risultati spesso troppo kitsch per essere presi sul serio, forse anche da lui stesso.

La grossolanità di certe soluzioni visive rispecchia i balbettii della CGI, come in certe produzioni direct-to-video che un tempo uscivano solo in DVD, mentre ora finiscono sulle piattaforme streaming. In fondo, Silent Night è proprio questo: una sceneggiatura di serie B con una regia di serie A, almeno a tratti. Ruvido e con poca speranza, è un film che subisce l’influenza (involontaria?) dell’intrattenimento videoludico, con nemici che spuntano dal nulla e si comportano da idioti. Eppure, Woo è ancora capace di orchestrare l’azione come una baraonda sregolata e brutale, trovando nella fisicità rabbiosa di Kinnaman l’interprete giusto. Così, mentre asseconda l’eroismo disincantato made in USA, il maestro hongkongese sembra quasi deriderne i cliché, e posa uno sguardo sornione sugli aspetti più sentimentali di questo retaggio, esasperandoli. È un gioco al massacro che gli riesce bene, a patto di accettarne il ridicolo (in)volontario.