Se paragonata ad altri young adult, la saga di Hunger Games ha sempre avuto una maggiore complessità nel delineare i rapporti fra i personaggi, mettendo in scena dinamiche non banali che oscillano tra reale sentimento, pubbliche relazioni, opportunismo e politica. D’altra parte, il contesto in cui si svolge la trama prende di mira la società dello spettacolo, mentre aggiorna il panem et circenses dell’Antica Roma alle logiche di un futuro distopico: la spettacolarizzazione della violenza diviene uno strumento di controllo delle masse, imposto da un potere centrale che traccia un solco sempre più ampio con la popolazione. È facile cogliere nell’opera di Suzanne Collins gli echi delle disparità sociali che funestano gli Stati Uniti, dove l’industria culturale è spesso un’arma di distrazione di massa, per l’appunto. Certo, l’autrice non confessa i suoi debiti verso Battle Royale e altre distopie, ma è indubbio che il futuro immaginato dai suoi libri sia coerente e ben articolato.
Visto il successo dei libri e dei film precedenti, Hunger Games: La ballata dell’usignolo e del serpente è l’inevitabile complemento di una saga che vuole mantenere il suo posto nell’immaginario collettivo, e batte nuove strade per ribadire la sua importanza. Come spesso accade (pensiamo a Harry Potter con Animali fantastici), il prequel è la soluzione ideale: consente di raccontare una nuova storia ambientata nel medesimo universo narrativo, ma senza turbare l’epilogo della saga principale. Quella che a prima vista può sembrare un’operazione forzata, però, si rivela un valido esempio di come espandere un franchise rispettando l’intelligenza del pubblico, ed evitando di sacrificare la storia sull’altare del puro fan service.
Il protagonista è Coriolanus “Coryo” Snow (Tom Blyth), futuro presidente di Panem, qui ancora diciottenne. Unico erede maschio di una famiglia caduta in disgrazia dopo la guerra, Coryo deve fare da mentore a Lucy Gray Baird (Rachel Zegler), tributo femminile del Distretto 12 alla decima edizione degli Hunger Games. Mentre la potente stratega Volumnia Gaul (Viola Davis) prepara i giochi e compie esperimenti sugli animali, Snow vede in Lucy Gray una potenziale vincitrice: la ragazza ha infatti una personalità energica e irriverente, capace di magnetizzare l’attenzione del pubblico con il suo talento per il canto. In principio, il legame che si instaura tra di loro è di pura convenienza, ma ben presto cominciano a fidarsi l’uno dell’altra, e la simbiosi che ne deriva sarà fondamentale per la sopravvivenza di entrambi.
Strutturato in tre parti (Il mentore, Il premio e Il pacificatore), Hunger Games: La ballata dell’usignolo e del serpente è la dettagliata origin story di un antagonista, e non si sottrae affatto dal mostrarne le ambiguità. Coriolanus è un ragazzo diviso tra l’amore per la famiglia e la fedeltà a un sistema in cui crede, tra le pulsioni del suo giovane cuore e le spinte opportunistiche della ragione. Il fascino selvaggio di Lucy Gray è un efficace contraltare alla sua nobiltà decaduta, anche in virtù del carattere provocatorio che la distingue. Peraltro, il film trova una giustificazione valida per inserire le sue canzoni, che rivelano dettagli sul passato della ragazza, sul suo stato d’animo o sulle situazioni che affronta. Ciò che ne risulta è un blockbuster meno scontato del solito, le cui aspirazioni politiche sono evidenti non solo nel contesto sociale, ma nelle scelte dei personaggi stessi.
Coryo è coinvolto emotivamente nel rapporto con Lucy Gray, ma è anche figlio del suo mondo, e non ha intenzione di rivoluzionarlo. Se l’amico Sejanus Plinth (Josh Andrés Rivera) è un idealista che conosce la miseria dei distretti, e non si fa problemi a condannare la disumanità degli Hunger Games, il Nostro desidera solo riconquistare la posizione che gli spetterebbe per diritto di nascita, e propone idee per migliorare la fruizione dei giochi. La ballata dell’usignolo e del serpente, in effetti, narra la genesi degli Hunger Games come li conosciamo, e delle tecnologie che li renderanno possibili. C’è una notevole cura nell’immaginare il loro passato, svariati decenni prima dell’arrivo di Katniss: in questo prequel, i giochi sono ancora in fase rudimentale, confinati in una semplice arena priva di trappole, campi di forza o animali geneticamente modificati. In un certo senso, è una satira di come il marketing renda tutto più prestigioso e luccicante, contribuendo però ad alimentare un mercato crudele che avvantaggia solo l’1% della popolazione: l’introduzione degli sponsor, idea avanzata da Coryo, consacrerà proprio il successo definitivo della manifestazione, scongiurando ogni pericolo di chiusura.
L’impressione è di assistere a due film diversi, poiché la terza parte cambia radicalmente sia l’ambientazione sia le dinamiche della storia, ma l’esito finale è coerente con tutto il resto, e contribuisce ad amalgamare il racconto. Il limite, se mai, è lo stesso di molti prequel: con Snow come protagonista, sappiamo già che il suo destino è segnato, e non può esserci vera suspense nei momenti di pericolo, né nelle scelte che farà; in altre parole, sappiamo bene come andrà a finire. Hunger Games: La ballata dell’usignolo e del serpente ha però il merito di puntare sulla relativa complessità dei personaggi, sulla tensione delle idee politiche contrapposte, e sull’evoluzione di un villain che, in fondo, incarna la banalità del male. L’esperienza del regista Francis Lawrence fa il resto, anche grazie alle scenografie di Uli Hanisch che uniscono la Berlino di Albert Speer al design dell’America degli anni Cinquanta, giocando su un retrofuturismo dal sapore dieselpunk. I fan si divertiranno a cogliere i più minimi dettagli, come le origini della ghiandaia imitatrice o la spiegazione del nome di Katniss, ma il film si regge bene anche sulle sue gambe, indipendentemente dagli altri capitoli.