«Il trauma è di tendenza al giorno d’oggi» dice Paul Matthews (Nicolas Cage) in una scena di Dream Scenario, e poi aggiunge: «Ogni cosa è un trauma». In effetti, il secondo lungometraggio di Kristoffer Borgli prosegue una riflessione iniziata nel precedente Sick of Myself, dove il regista norvegese – alla stregua dei connazionali Joachim Trier e Ruben Östlund – usa il cinema come strumento per rielaborare la contemporaneità, soprattutto nelle sue manie di rappresentazione sociale. La differenza è che qui il discorso si espande: da una vicenda individuale (quella di una donna che si autodistrugge per rimanere al centro dell’attenzione) si passa infatti a un’esperienza collettiva, che mette in primo piano la percezione del singolo nell’immaginario delle masse.
L’individuo in questione è proprio Paul, biologo evoluzionista che insegna all’università. Mite e ordinario, non riesce a farsi valere nel suo campo di studi, dove una delle sue teorie viene copiata da una collega per un articolo su Nature. Nemmeno la sua famiglia sembra dargli molto credito, né tantomeno i suoi studenti, eppure Paul comincia ad apparire casualmente nei loro sogni: non parla, non interviene per dare una mano in situazioni da incubo, ma si limita a guardare o al massimo sorridere. La situazione prende una piega surreale quando anche il resto del mondo inizia a sognare Paul, senza nemmeno sapere chi sia. Il tranquillo professore si trova quindi a convivere con una popolarità improvvisa, dalla quale cerca di trarre vantaggio per pubblicare un libro. Mentre sua moglie Janet (Julianne Nicholson) e le due figlie si adattano a questa nuova situazione, la fama mostra ben presto il suo volto più cattivo, anche perché l’indolenza onirica di Paul cambia di pari passo con l’aumento della sua celebrità.
Mentre in Sick of Myself il protagonismo era voluto e cercato, in Dream Scenario capita per puro caso a un individuo che non è capace di gestirlo. Kristoffer Borgli permette a Nicolas Cage di interpretare un vero personaggio dopo alcuni film in cui faceva il meme di sé stesso, e sembra riportare l’attore ai tempi de Il ladro di orchidee (l’aspetto trascurato, l’insicurezza caratteriale) e di The Weather Man (l’immagine anonima e ordinaria del protagonista). Non a caso, la passività di Paul nei sogni rispecchia l’idea che gli altri hanno di lui, e che lo preoccupa fin dalle prime battute: se persino sua figlia ha un incubo dove Paul non fa niente per aiutarla, come può sperare che il resto del mondo lo rispetti?
Memore del suo ottimo esordio, Borgli è bravo a restituire tutto il disagio dei rapporti sociali, all’interno di un sistema che premia l’arroganza e lo spirito propositivo, indipendentemente dalla qualità dei contenuti. Paul è un vaso di terracotta tra vasi di ferro, inadeguato non solo alla competizione professionale, ma all’esposizione mediatica che deriva dalla sua fama. Non ha alcun controllo sugli eventi, perché la celebrità virale – in quanto tale – vive di vita propria. Quando il suo ruolo nei sogni altrui si fa improvvisamente violento, è chiaro che il “pubblico” è saturo di lui: il subconscio collettivo lo trasforma in antagonista per esprimere l’invidia e la stanchezza della gente. Dream Scenario, dopo una prima parte da commedia paradossale, diviene allora una meditazione dolente sui pericoli della fama, e sulla velocità con cui l’opinione pubblica è in grado di creare (e poi abbattere) i suoi miti. Il regista norvegese ha in mente le dinamiche della cancel culture, con le sue condanne popolari senza processo e le reazioni spesso irrazionali dei social media. Nel momento in cui Paul si guadagna le simpatie dell’alt-right e delle platee francesi, è evidente che ha perso i favori della massa, quantomeno negli strati sociali che influenzano l’industria culturale americana. Una sorte che lo accomuna a Woody Allen e altri personaggi pubblici, con la differenza però che Paul non è accusato di nulla.
La satira di Borgli si conferma lucidissima e palese (non si può certo dire che giochi a carte scoperte), ma le sue ambizioni sono più ampie che in Sick of Myself: non si tratta solo di esplorare l’autorappresentazione di un singolo personaggio, bensì il modo in cui viene recepito all’esterno, e le tendenze che plasmano il comportamento del pubblico – compresa la centralità del trauma nella narrazione di sé. Anche qui, peraltro, Borgli dimostra il suo talento nell’alternare realtà e immaginazione – o sonno e veglia – senza soluzione di continuità, passando dall’una all’altra con straniante naturalezza. Non cerca di ritrarre i sogni in modo credibile (l’esperienza onirica è molto più fluida e soggettiva di così), poiché la sua intenzione è un’altra: invitare lo spettatore a osservare gli avvenimenti da una distanza critica, raggelando la messa in scena. Solo quando i sogni danno corpo ai desideri di Paul l’atmosfera si addolcisce e si riscalda. L’esito è di amara consapevolezza: un po’ come lo Stéphane Miroux de L’arte del sogno, anche il mite professore trova la felicità solo in territori onirici, e l’abilità di Nicolas Cage sta nel farci credere che sia davvero possibile.