I 30 anni di Carlito’s Way non sono una data qualunque per chi ama il cinema, il grande cinema. Brian De Palma in quel 1993 ci prende per mano e ci porta dentro la tragedia di un gangster, lo fa con un cast straordinario, su cui domina un Al Pacino dolente, umano e distante dal suo manierismo. A tanti anni di distanza, questo capolavoro rimane ineguagliato nella capacità di distruggere il mito del gangster, cominciato decenni prima, nel riportare il realismo al centro di un melodramma struggente.
Carlito’s Way, al netto della sua origine connessa ai romanzi di Edwin Torres, ancora oggi viene visto come una sorta di fratello-sequel-variazione di quel successo planetario che fu Scarface. Perché è un dato di fatto che Tony Montana, riesumando il capolavoro con Paul Muni, avesse creato una cesura totale nel genere, rendendo il genere narcos una sorta di appendice dell’american dream. Lo era già in passato ad essere onesti, in fondo la figura del gangster in America affonda la propria semantica della Guerra di Secessione. A quel tempo i fuorilegge erano ex guerriglieri sudisti, gente come i Reno o i James, che si fecero forza del mai spento spirito di ribellione del Sud contro il Nord vincente. Nel corso degli anni una gigantesca letteratura e poi infine il cinema, avrebbero posto il ruolo del criminale come quello di antieroe, essenza che lo stesso Brian De Palma in Scarface avrebbe incrociato con il dramma shakespeariano. Carlito’s Way di fatto fin dall’inizio pare abbracciare l’identità di un risveglio di Tony Montana a tutti gli effetti. Carlito Brigante è appena uscito di galera, in quel 1975 dove l’America è nelle mani di quei cocaine cowboys che serie come Narcos ci hanno fatto comprendere nella loro natura abietta e deformante. Ciò che ancora oggi rende questo film straziante, coinvolgente e potente è come Carlito fin dall’inizio in realtà cerchi in tutti i modi di uscire dall’ambiente criminale. Sa che non potrà mai farlo completamente, ma ci prova nonostante tutto. Vuole scappare nei Caraibi con Gail (Penelope Ann Miller) la donna che ama e per farlo prende in gestione un night assieme all’avvocato e amico David Kleinfeld (Sean Penn). Sarà proprio quest’ultimo ad inguaiarlo, assieme al suo “fidato” vice Pachanga (Luis Guzman), facendolo infine sprofondare nello stesso gorgo amorale e violento da cui voleva fuggire. Carlito’s Way, ornato da una fotografia meravigliosa di Stephen H. Burum, abbraccia fin dall’inizio un’atmosfera presaga di tragedia, morte e fallimento. Lo sentiamo, lo avvertiamo, lo capiamo, come lo fa Carlito, dentro cui ancora si agita la via della violenza, la vita precedente che egli vorrebbe rinnegare. Anche grazie alla bellissima colonna sonora, il film abbraccia il neo-noir, il classicismo di quell’hard boiled da sempre popolato di perdenti indomiti.
Più di qualcuno all’epoca, sottolineò come Al Pacino, nel pieno di una maturità artistica ormai universale, si fosse connesso proprio ad Humprey Bogart, per “distruggere” Tony Montana. Se il rampante cubano distrutto dalla sua stessa ferocia era fatto di gelosia e segreti, Carlito è come il grande divo di metà secolo aveva creato anime in cerca di riscatto e resurrezione; egli è un uomo e basta, con i suoi pregi e difetti. Carlito’s Way è ancora oggi unico nel crudo realismo con cui ci fa capire l’errore fondamentale da parte dell’ex spacciatore: continuare a circondarsi di persone legate al suo passato. Il suo rapporto con l’infido avvocato Kleinfield, che lo fa finire incolpevole nel mirino di una famiglia mafiosa della Grande Mela, così come con Pachanga, sono alla base della sua rovina, di quel finale nella stazione. Pur se morente, riesce ad assicurare un futuro a Gail. In quei dolenti e per certi versi poetici ultimi momenti, in quella confessione che quasi rompe la quarta parete, c’è l’epilogo prevedibile di un criminale. Pochissimi film ancora oggi sanno essere così potenti nel farci comprendere la cultura della morte, della sofferenza e della brutalità di quel mondo. Esemplari da questo punto di vista non sono solo l’incontro con la “talpa” Lalin di un grande Viggo Mortensen, ma anche la rivalità con il giovane guappo Benny Blanco (John Leguizamo). Questi altri non è che Carlito stesso, anni prima, quando come Blanco voleva essere un Piccolo Cesare, il mito del gangster come yuppie degli ultimi. Non un caso che sia quest’ultimo e non altri pesci grossi dell’ambiente, ad uccidere Carlito alla fine, quasi in una sorta di contrappasso. De Palma, come al solito elegante nella sua regia, fa compire al personaggio di Carlito una fallita metamorfosi in cui alla base vi è la negazione di ogni veridicità nel mito del criminale-rockastar. Il suo protagonista è distante dalla visione da divo di Scarface e degli altri epigoni, egli è animato da una paura a tratti quasi insopportabile, scevro da ogni sensazione di invulnerabilità o di vittoria, cerca semplicemente di scappare da quella trappola che si stringe attorno a lui. A trent’anni di distanza, Carlito’s Way ovviamente non ha conosciuto lo status di icona di altri capolavori del genere, data la sua negazione dell’epica, del mito hollywoodiano e quindi americano sull’accumulazione di potere. Rimane uno dei più potenti esempi di richiamo alla realtà sotto forma di narrazione immaginifica, vero e proprio monumento al concetto di conto da saldare per chiunque vada sulla via sbagliata.