La serie animata di cui tutti parlano in questi giorni su Internet, Blue Eye Samurai, – 8 episodi usciti in blocco su Netflix a inizio mese – è ambientata nel Giappone del XVII secolo, tra ronin, geisha, shogun e prostitute dell’epoca Edo, ma non è un anime. Realizzata da uno studio francese, è stata creata dalla coppia Michael Green e Amber Noizumi, che nella vita sono anche marito e moglie e dei quali il primo è famoso come sceneggiatore di pellicole come Blade Runner 2049 e Logan. Ma di cosa parla, Blue Eye Samurai? Perché tutti ne sembrano così entusiasti, e soprattutto merita tutte le sette ore circa che vi serviranno per guardarla? (Spoiler: la risposta all’ultima domanda è Decisamente sì.)
“Ahi, ahi, ma dove vai bel samurai, con la testa piena di guai”, si cantava nel programma TV Macao più di un quarto di secolo fa. Per quanto possa sembrare strano, la rima nel titolo di Blue Eye Samurai veicola sostanzialmente lo stesso concetto: Mizu, è un ronin, cioè un samurai errante, senza padrone, dagli occhi blu perché suo padre era uno dei pochissimi stranieri presenti in Giappone nel periodo di chiusura delle frontiere pressoché totale voluta dallo shogunato Tokugawa. Ma gli occhi cerulei – celati dietro degli occhialini alla John Lennon – non sono l’unica cosa di sé che Mizu nasconde al mondo… La sua missione di vendetta, una sorta di preghiera dell’odio di Arya Stark, conduce questo ronin attraverso città e duelli, incontri e perdite dolorose. Alla sua, si affiancano e sovrappongono altre storie, molte delle quali destinate a finire in un lago di sangue.
Non sono le dita mozzate, le arcate dentali strappate, il sesso o tutti quei nudi full frontal a fare di Blue Eye Samurai una serie adulta. Lo è soprattutto il modo in cui la storia è raccontata. Pensate a una serie HBO, di quelle avvincenti, scritte bene, e ora immaginatela semplicemente trasposta in animazione. Una serie che non ha timore a mescolare piani temporali alternando gli eventi attuali a lunghi spezzoni di flashback, a seguire altre vicende quando sono funzionali alla storia, a giocare con quello che lo spettatore si aspetta da una certa inquadratura o da un certo personaggio. Come a ricordarti che anche l’animazione occidentale è capace di dipingere figure ambigue, se vuole.
La resa visiva è frutto di un peculiare lavoro di character design, di uno stiloso mix di 2D e 3D, e di scelte registiche azzeccate, sotto la supervisione dell’animatrice e scenografa Jane Wu, con trascorsi nell’MCU e in film d’animazione come Spider-Man: Un nuovo universo. Dopo Arcane, e pur senza arrivare a quei livelli di splendore, Blue Eye Samurai è insomma un altro centro di Netflix in quanto ad animazione occidentale di nuova generazione, e più in generale una delle proposte artisticamente più interessanti nel settore da parte della piattaforma, poco più di un anno dopo un’altra serie di grande successo come Cyberpunk: Edgerunners (ma quest’ultima aveva un animo anime, e perdonate il bisticcio di parole).
La presenza di una figura femminile estremamente forte e impavida, il tema della vendetta, un nemico numericamente soverchiante e alcune ambientazioni molto suggestive potrebbero ricordare a chi non è avvezzo ai grandi classici del cinema giapponese soprattutto Kill Bill. Cosa della quale devono essersi resi conto anche gli autori di Blue Eye Samurai, tanto che a un certo punto c’è una citazione esplicita alla trasferta nipponica di Beatrix Kiddo nel film di Tarantino. Citazione che, a dire il vero, è forse l’elemento più pacchiano – insieme a quei numeri alla Goemon Ishikawa XIII delle katana che tagliano di netto tronchi enormi – in una serie che tratta l’ambientazione storica scelta con grande rispetto.
Se pure c’è qualche piccolo anacronismo, nel complesso il lavoro di ricerca effettuato a monte si vede, così come si vede lo studio dei summenzionati classici, da Kurosawa – ovvio – a Lady Snowblood, visto che parlavamo delle fonti di ispirazione di Kill Bill. C’è pure, restando al cinema asiatico, un pizzico di Hero di Zhang Yimou, che male non fa. Anzi.
Per il resto, in Blue Eye Samurai brilla l’ambizione che ha mosso gli autori nella scelta di alcune soluzioni narrative, come un episodio in cui il corso degli eventi è raccontato attraverso il bunraku, il teatro dei burattini tradizionale giapponese. E in generale, c’è stile negli scenari quanto grazia nei brutali combattimenti che macchiano pareti e visi di fiotti di sangue. Una danza di morte in cui Mizu – per tutti un onryō, uno spirito vendicativo come gli spettri del folklore – deve cercare di appagare la sua sete di vendetta, senza trasformarsi nel demone che è per gli altri, a causa di un paio di begli occhi azzurri e una testa piena di guai…