C’è un adolescente che ha rivoluzionato il cinema horror degli anni Novanta, e non ce ne siamo nemmeno accorti. Rolfe Kanefsky frequentava l’ultimo anno delle superiori quando scrisse la sceneggiatura di There’s Nothing Out There, e aveva solo 20 anni quando diresse il film, ma non sempre lo status di enfant prodige ti salva dall’oblio: Hollywood, come il povero Rolfe ha imparato a sue spese, proietta un’ombra talmente lunga che sfuggirle è quasi impossibile.
Il merito di aver riesumato la sua storia appartiene a MUBI, il cui catalogo ha recentemente accolto non solo There’s Nothing Out There, ma anche il breve documentario Copycat, dove lo stesso Kanefsky racconta l’intera vicenda a Charlie Shackleton. Andiamo con ordine, e cerchiamo di riassumerla.
20 anni, si diceva: età imprevedibile ma eccitante, carica di progetti e sogni per il futuro. Rolfe Kanefsky sa per certo che ama il cinema horror, una passione che nasce dai film di Gianni e Pinotto con i mostri classici, come Il cervello di Frankenstein. Fin da piccolo, Rolfe divora tutti gli horror che gli capitano sotto mano, legge Fangoria, va alle convention, insomma fa tutto quello che ci si aspetterebbe da un bravo nerd. Ben presto, come molti suoi colleghi, nei film horror inizia persino a notare dei motivi ricorrenti, ovvero dei topoi che si ripetono all’infinito: d’altra parte, sappiamo bene che l’horror è il genere più codificato in assoluto, e non è difficile isolare tutti i suoi cliché, le sue “regole”. Quante volte abbiamo visto i protagonisti scendere in cantina per indagare su uno strano rumore, o dividersi proprio quando dovrebbero rimanere uniti? E quante volte abbiamo visto un gatto saltare fuori dal nulla in una stanza buia, al solo scopo di farci prendere uno spavento? Ormai devoto al cinema “di paura”, Rolfe decide di scrivere un copione che gioca proprio con questi topoi, enunciandoli attraverso la voce di un personaggio. Se vi ricorda qualcosa, abbiate pazienza: ci arriveremo.
There’s Nothing Out There nasce così: dal desiderio di rielaborare (e in parte parodiare) un intero immaginario, con i suoi codici narrativi e gli assurdi comportamenti dei suoi protagonisti. Rolfe riesce a raccogliere tra i 100 e i 120 mila dollari per produrre il film, anche grazie all’amore dei genitori, che ipotecano la casa e gli permettono di raggiungere il budget necessario. Le riprese si svolgono nell’estate del 1989, per un totale di 24 giorni. Ma di cosa parla There’s Nothing Out There?
Il titolo (“Non c’è niente là fuori”) deriva dalla battuta tipica che pronunciano i personaggi per stemperare un momento di tensione… salvo poi scoprire che si sbagliano, e che là fuori c’è davvero qualcosa. Accade lo stesso anche nel film di Kanefsky, palesemente influenzato dall’horror degli anni Ottanta. La storia ruota attorno a un gruppo di amici che partono per le vacanze dopo la fine della scuola, ansiosi di trascorrere l’estate in una placida villetta tra i boschi. Uno di loro, Mike (Craig Peck), è un grande appassionato di horror, e comincia a notare diversi segnali poco incoraggianti, compreso uno strano incidente stradale da cui è sparita una ragazza. Gli altri non danno troppo peso ai suoi avvertimenti, e vogliono solo godersi la vacanza: in fondo, sono tre coppie ubriache di ormoni che non vedono l’ora di sfogare i propri istinti, mentre lui fa la figura del nerd ansioso e paranoico. Peccato però che abbia ragione. Un mostro alieno si aggira infatti tra gli alberi, determinato a fecondare qualche femmina umana per propagare la sua specie. L’esperienza di Mike con il cinema horror trova quindi un’utilità pratica, e permette al gruppo – o quantomeno ai pochi superstiti – di affrontare la creatura.
La trama in sé non ha nulla di nuovo, ma ciò che conta è l’approccio di Kanefsky alla materia. Attraverso Mike, il regista svela i cliché degli horror con piglio metanarrativo, proponendo un personaggio che è consapevole di trovarsi in un film dell’orrore. Mike sottolinea ogni cliché, cita i classici del genere, e usa la sua conoscenza non solo per risolvere le situazioni, ma anche per prevenire i pericoli: esemplare la scena in cui, quando sente un rumore provenire dai boschi, sceglie deliberatamente di non andare a controllare. There’s Nothing Out There lavora su questa consapevolezza per unire horror e commedia, talvolta con effetti slapstick, ma sempre attraverso il linguaggio del cinema splatter. Beninteso, si tratta di un’opera figlia del suo tempo e di uno sguardo che stride con la sensibilità contemporanea: i nudi femminili gratuiti non si contano, e Bonnie Bowers (affermatasi in seguito come musicista) rimane assurdamente in bikini per gran parte del film. Lo stesso Mike, peraltro, mantiene sempre un atteggiamento sarcastico verso le ragazze, e le tratta come se fossero delle impedite senza cervello. Le sue frecciatine derisorie lo rendono abbastanza insopportabile, per quanto facciano parte della sua caratterizzazione: è un protagonista raisonneur, stanco di quei topoi che si trova costretto a vivere in prima persona.
Comunque, There’s Nothing Out There resta un film spassoso e compatto, ricco di soluzioni argute per mascherare i limiti del budget: le soggettive spericolate del mostro non sono soltanto una citazione da La casa di Sam Raimi (che ovviamente è su un altro livello in termini di qualità, inventiva e forza visionaria), ma servono a evocare la presenza della creatura senza mostrarla in modo esplicito. La contaminazione di orrore e umorismo non manca di originalità, e il citazionismo postmoderno è davvero innovativo per l’epoca. Ma allora, perché non ricordiamo il film di Kanefsky come un cult del genere? Perché la sua influenza sul metahorror degli anni Novanta non è stata riconosciuta? La spiegazione è tutta in una celebre legge di Murphy: se qualcosa deve andare male, lo farà.
Una volta pronto, Rolfe presenta il film all’Independent Feature Project di New York, dove viene accolto con entusiasmo sia dal pubblico sia dalla critica. Il direttore delle acquisizioni della Universal, che all’epoca stava cercando un regista per La bambola assassina 3, chiama da Los Angeles e chiede di vederlo. Insomma, le cose sembrano andare per il verso giusto. C’è però un problema: “Nel periodo tra le riprese e la post-produzione del film, il genere era collassato” spiega Kanefsky in Copycat. È il 1991, ed effettivamente l’horror non ha più la stessa fortuna che aveva negli anni Ottanta. Tremors e Cabal – poi divenuti dei cult – non riscontrano il successo sperato al box office, e gli studios non sanno più come vendere i film dell’orrore. Gli stessi dirigenti che avevano amato There’s Nothing Out There dicono a Rolfe che non sanno cosa farci con un prodotto del genere. “Nel cast non c’è nessuno di famoso” spiegano, “ed è troppo divertente per essere spaventoso, troppo spaventoso per essere divertente”. Hollywood, si sa, non ama i film dai contorni indefiniti.
There’s Nothing Out There trova comunque una distribuzione limitata, ma nel momento sbagliato: il week-end dell’apertura a New York City coincide infatti con il Super Bowl e con una tempesta di neve, mentre l’esordio sulla West Coast avviene proprio durante la rivolta di Los Angeles, dopo l’assoluzione dei quattro agenti di polizia che avevano pestato il tassista afroamericano Rodney King. Ciononostante, Rolfe continua a provarci. Frequenta i festival, fa girare il suo film, e qualche anno dopo ne consegna una copia a un giovane produttore, che lo trova fantastico. Quest’ultimo invita Rolfe a pranzo, si complimenta con lui e gli assicura che parlerà del film a suo padre. Il giovane produttore è Jonathan Craven, figlio del celebre Wes, uno dei principali registi horror degli ultimi decenni. Se cominciano a tornarvi i conti, siete sulla strada giusta.
Passano un paio d’anni e Rolf non riceve più notizie di Jonathan, calma piatta. Il frutto di quello strano silenzio giunge però nel 1996, e s’intitola Scream: forse l’horror più rappresentativo degli anni Novanta, diretto proprio da Wes Craven. Potete immaginare la sorpresa di Rolfe di fronte a quel meta-horror citazionista e post-moderno, che enuncia le regole dello slasher dalla viva voce di uno dei personaggi (Randy, di fatto un clone di Mike). È plagio? Chiaramente no: le trame dei due film non hanno niente in comune. Eppure, è difficile credere che There’s Nothing Out There non sia stato quantomeno una fonte d’ispirazione per l’approccio metanarrativo di Scream, nonché per la caratterizzazione di Randy. Il film di Craven incassa 173 milioni di dollari in tutto il mondo (un record all’epoca per uno slasher), e viene accolto come il primo horror autocosciente, iniziatore di un sottogenere che in quegli anni ha parecchia fortuna. In realtà, anche Il seme dalla follia di John Carpenter e Nightmare – Nuovo incubo dello stesso Craven avevano dei forti elementi meta-horror, ma Scream è considerato il primo film totalmente consapevole delle sue regole, al punto da spiegarle nella finzione. Non è così, perché Kanefsky l’ha anticipato di almeno un lustro, e sempre con una focalizzazione sugli adolescenti.
È un boccone amarissimo da mandare giù, soprattutto per un giovane regista all’inizio della sua carriera. Peraltro, Rolfe si è sempre mostrato molto diplomatico sulla questione: non ha mai chiesto niente, se non che il pubblico giudicasse da sé. There’s Nothing Out There è stato distribuito in DVD negli Stati Uniti, e ora possiamo vederlo anche noi su MUBI, la sua prima distribuzione ufficiale in Italia (dove esordì nel 1992 in un festival di Firenze). È un pezzo di storia del cinema che merita di essere conosciuto, soprattutto dagli appassionati di horror e da chi vuole rendersi conto di quanto sia spietato il tritacarne hollywoodiano. Per conto suo, Rolfe è riuscito quantomeno a ritagliarsi una carriera come regista e sceneggiatore nel cinema di serie B, ovvero quel circuito parallelo che offre un’alternativa allo strapotere di Hollywood. A ben vedere, il vincitore morale è lui.