Il Grand Prix Speciale a Cannes a The Zone of Interest forse non rende l’idea di che cosa sia stato capace di creare Jonathan Glazer, traendo spunto dal romanzo di Martin Amis. Il regista di Sexy Beast e Under The Skin abbandona ogni artificio e si lancia nel suo film più coraggioso, più estremo, più riuscito. Capolavoro è la parola giusta per descrivere quest’immersione ammaliante, inquietante e assolutamente unica per caratteristiche dentro la famiglia di Rudolf Höß, comandante di Auschwitz, uno dei tanti macellai della svastica.
The Zone of Interest è incentrato in modo semi-documentaristico sulla vita quotidiana di Rudolf Höß (Christian Friedel), comandante del Campo di Sterminio di Auschwitz, e della sua famiglia, formata dalla moglie Hedwig (Sandra Huller) e dei cinque figli. Tutti assieme vivono nell’”Area di Interesse”, sostanzialmente distaccati dall’indicibile orrore che si consuma dentro il campo, ma non per questo ignari di ciò che Rudolf sta creando, dall’alto della sua posizione di alto prestigio, persino all’interno del cerchio ristretto che faceva riferimento ad Himmler ed Eichmann. Lo seguiamo, lui omuncolo insignificante, innamorato del potere della divisa, represso da una dimensione famigliare che per lui è semplicemente prolungamento del proprio ego, della propria vanità. Glazer, a dispetto di una colonna sonora di Mica Levi incredibilmente aggressiva e straniante, sposa uno stile neutro, freddo, in cui il realismo non è semplicemente rivendicazione di maniera ma effettiva identità. La telecamera è presente e assente, è il prolungamento del loro sguardo, della loro realtà, limitata ma non per questo staccata dal massacro metodico che Rudolf compie con diligenza e disciplina. Lui è un piccolo satrapo che agogna il potere come un animale in calore, così come i segni esteriori di quella virilità che in realtà gli è distante per fisicità e per carattere. Figura patetica come lo sono state numerose tra le più feroci della Storia, grazie a Glazer e alla grande interpretazione di Friedel diventa simbolo di un arrivismo universale, di quel mostruoso ingranaggio macina-anime che fu la Soluzione Finale. Intanto la moglie non è da meno, piccola borghese frustrata, ignorata da un marito che si dedica a Eleanor Hodys, ai cavalli, all’omaggio del suo piccolo esercito, dentro quella pioggia costante di cenere e orrore. Silenzioso, desertico, distaccato quanto basta per essere più vero della verità, The Zone of Interest proprio per questo diventa un potentissimo affresco umano e storico, una visita dentro la tana del Drago.
The Zone of Interest segue l’unica vera, reale, possibilità di rappresentazione del male. Farlo con un tono maggiormente coinvolto, come visto in Il Debito o Operation Finale sarebbe stato puramente strumentale ed inutile. Il male deve parlare per sé stesso, deve potersi librare in aria con le sue piume sudicie. Del resto, non solo Spielberg in Schindler’s List a ben pensarci, ma anche Nemes in Il Figlio di Saul, Pierson in Conspiracy e Amen di Costa-Gavras hanno scelto questa strada, con i notevolissimi risultati che tutti conosciamo. A questa lista, sia per caratura che per originalità di sguardo, ora bisogna aggiungere questo film, che è tra i più onesti, coerenti e spiazzanti che il genere abbia mai avuto. La fotografia di Łukasz Żal gioca un ruolo fondamentale nell’aumentare il senso di realismo e di viaggio nel tempo, in un film che però alla fin fine è anche visionario, abbandona a sorpresa il tono freddo e distaccato del narratore storico, per connettersi al concetto di eredità, di memoria impolverata, di tempo che passa. Il Reich millenario costruito sul sangue degli inermi, oggi è cimelio tenuto di malavoglia dai governi polacchi, è eredità dei posteri. Rudolf, che a Norimberga parlò del massacro pluriennale come si parlava di briscola o bulloni, che poco prima di essere giustiziato si pentì in una lettera al figlio primogenito, qui diventa portatore di quell’insieme di banalità e vuoto niente dentro cui ognuno nel nazismo e nel fascismo ha potuto creare ciò che voleva. The Zone of Interest, con la sua orrenda famiglia di nazisti, la putredine che cammina con la loro mancanza di empatia, è pari a ciò che sono stati volumi come “La Seconda Guerra Mondiale vista dai Tedeschi” di Lucas: un viaggio dentro l’inferno creato da uomini come Höß, quelli che hanno svolto il feroce lavoro nel mondo per un senso di rivalsa verso sé stessi. Senza ombra di dubbio il film più notevole sul tema dai tempi di Nemes, ma forse superiore per la capacità di farci comprendere veramente chi erano coloro che adorarono la svastica.