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Palazzina Laf è un tipo di cinema che in Italia dobbiamo recuperare

Pubblicato il 23 ottobre 2023 di Giulio Zoppello

Palazzina Laf è uno di quei film che una volta rendevano la nostra cinematografia piena di importanza, di potenza, in virtù di un forte impegno civile e una grande volontà di unire stile con significato. Politicamente schierato come si vuole in questi casi, il film di Michele Riondino è una dolente e cinica ricostruzione di ciò che subivano i lavoratori dell’ILVA che rifiutavano declassamenti e davano fastidio. Avercene, come si suol dire.

Tra gli invisibili e indesiderabili dell’ILVA

Caterino Lamanna (Michele Riondino) è uno dei tanti operai che dentro l’ILVA passano l’intera vita a lavorare, spesso in condizioni di sicurezza terribili, con turni massacranti e in un clima che la nuova dirigenza ha reso impossibile, fatto di oppressione, mobbing e prevaricazione. Fidanzato con Anna (Eva Cela), Caterino sogna maggior stabilità, più soldi, di non perdere il lavoro come a molti sta capitando in quel finire di anni ’90, quando l’ILVA era stata rilevata da una dirigenza priva di scrupoli e moralità. Caterino, al contrario di tanti suoi colleghi, non è interessato ad impegnarsi nella protesta, ad entrare nel Sindacato o simili. Viene per questo avvicinato da uno dei dirigenti più importanti: Giancarlo Basile (Elio Germano). Questi gli promette promozioni, auto aziendale e ogni genere di favore a patto che egli faccia da informatore su ciò che succede e si decide dentro la Laf. “Laminatoio a freddo”, così si chiama quella palazzina abbandonata a sé stessa, dove vengono mandati i lavoratori e le lavoratrici che rifiutano il declassamento totalmente fuori da ogni logica che l’azienda vuole imporre, così come coloro che danno fastidio per il chiedere diritti, sicurezza e un clima che sia più umano. L’ILVA ormai è una sorta di carcere, con secondini, informatori, ribelli e quant’altro. Caterino, da quel momento, comincerà una doppia vita, ma l’esito di quella decisione sarà molto diverso da quello che pensava. Michele Riondino, tra gli attori non solo più bravi ma anche più impegnati politicamente della sua generazione, esordisce come regista e sceneggiatore in modo autorevole e senza sbavature. Palazzina Laf è un affresco ora tragico, ora comico, ma soprattutto illuminante sulla debacle morale della realtà lavorativa, non solo a Taranto, ma più in generale nel nostro paese. Il risultato finale è quello di un film che strizza l’occhio a Petri, a quel cinema di una volta capace di parlare del dramma degli ultimi senza retorica, ma con lo sguardo lucido di un chirurgo che seziona un corpo marcio usando le immagini.

Un film capace di essere virtuoso senza per questo annoiare

Palazzina Laf ha nel Caterino di Riondino un protagonista brutto, sporco e cattivo, se non cattivo almeno marcio, torbido, ambiguo. Di base è un perfetto esempio di sottoproletario, quella classe che ad oggi ha messo in un angolo il proletariato ed ha rinnegato lotta di classe, coesione, decenza e capacità di andare oltre la materialità della vita. Caterino, in quel 1997, è uno di loro, è di base un codardo ignorante e opportunista, furbo ma poco intelligente e Riondino riesce a creare una reazione nel pubblico che è a metà tra detestabilità e pietas. Germano forse esagera con il manierismo del suo Basile, piccolo borghese egocentrico, classista, narcisista, classico esemplare di quella classe dirigente che in ogni ambito, da noi, è la vera palla al piede della nostra società. Il resto del cast viene guidato in modo perfetto nel delineare i diversi personaggi che affollano quella fabbrica, quella palazzina, sorta di carcere distopico dentro cui intere esistenze vennero distrutte e dignità calpestate. Seguendo i passi di quel miserabile, afflitto da quel “lavorismo” che oggi si è imposto nel nostro tessuto sociale, Riondino allarga lo sguardo fino a comprendere tutto il nostro paese, dove casi come quello dell’ILVA non sono poi così rari. Il risultato di Palazzina Laf è sicuramente meritevole di lode, soprattutto perché fresco, moderno, privo di una volontà di essere scolastico. Rimane la domanda sul perché il nostro cinema non voglia prendersi la responsabilità di riportare al centro tutto questo, ma la riposta è la stessa che ci offre Caterino: paura, individualismo, mancanza di empatia. Palazzina Laf è quello che serve al nostro cinema per riportare il pubblico in sala, quel pubblico che non chiede solo distrazione ma qualcosa in cui rivedersi, una cinematografia che narri del suo presente per quello che è. C’è da scommetterci che rimarrà un caso isolato, dato il clima culturale e produttivo, ma questo non toglie nulla all’importanza di ciò che Riondino ci ha dato, alla capacità di appassionare con un film che non ha solo la causa giusta dalla sua, ma pure la bontà del risultato cinematografico.