Se, a Berlino, vi recaste al numero 10 di Unter den Linden, trovereste una cosa sorprendente: il museo di Bud Spencer. Una raccolta di memorabilia, props, riproduzioni di veicoli e tante altre chicche legate sia alla carriera solista di Carlo Pedersoli, sia agli anni in coppia con Terence Hill. Ne uscireste con la rinnovata consapevolezza che, in Italia, abbiamo un problema con il cinema popolare: mentre a Berlino, in Germania!, qualcuno si è preso la briga di dedicare un intero museo a una delle icone del nostro cinema, qui da noi si fa ancora fatica a trovare delle edizioni home video decenti dei film della coppia – è già tanto che, finalmente, sia stato restaurato Lo chiamavano Trinità.
Nel nostro paese non c’è mai stata la giusta considerazione per il cinema di genere, capace di attirare le masse in sala, termometro della salute di ogni industria cinematografica che si rispetti. Per questo, nonostante ancora oggi i film di Bud Spencer e Terence Hill siano amatissimi non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, li si tratta quasi come quei parenti un po’ imbarazzanti che non inviti nelle occasioni importanti. Sempre per questo, il nome di Italo Zingarelli, prolifico produttore che, di fatto, si inventò il cinema di Spencer e Hill insieme a Enzo Barboni, viene pronunciato anche troppo poco.
Per fortuna che ora ci pensa un documentario, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in onda in prima serata su Rai 3 venerdì 20 ottobre, a ricordarcelo. Il film in questione si intitola Lui era Trinità, è scritto da Clarissa Montilla e Alessio Guerrini e diretto da Dario Marani, e si propone di fare luce su una figura larger-than-life che ha lasciato un marchio profondo nel nostro cinema popolare. Ne esce un’opera a tratti un po’ scolastica, che ha più il sapore di un extra molto ben curato che di un film destinato alla sala, ma che comunque sa arrivare al cuore di Zingarelli, anche grazie a una serie di aneddoti di prima mano davvero notevoli.
Naturalmente, visto il titolo e la presenza, tra gli intervistati, di Terence Hill, il documentario si concentra molto su Lo chiamavano Trinità e la coppia Spencer-Hill. Ma non dimentica di fare un excursus di tutta la carriera di Zingarelli, dagli inizi nel pugilato, che poi lo portò a lavorare prima come comparsa nei peplum della Hollywood sul Tevere, poi come direttore di produzione e, infine, produttore, per finire con il “terzo atto” di una vita che ha davvero un respiro cinematografico. Dopo essersi parzialmente ritirato dal cinema nei primi anni ’70, infatti, Zingarelli fondò la casa vitivinicola Rocca delle Macie, nel Chianti, trovando successo anche come produttore di vini.
La parte sulla sua carriera cinematografica è quella più corposa, ovviamente: il film si avvale delle testimonianze dei figli di Zingarelli e dei suoi collaboratori, come Giovanna Ralli, protagonista di una delle sue poche regie, Una prostituta al servizio del pubblico ed in regola con le leggi dello Stato, per dipingere un ritratto a 360 gradi di un artista che amava il cinema quanto la vita, amava la buona tavola, la convivialità, tutti elementi che facevano di lui un ottimo leader. Ne emerge anche l’affresco di un’epoca che non potrà mai ripetersi, di un artigianato che si faceva arte per sfondare le barriere geografiche e vincere anche all’estero.
Nel corso della sua carriera, Zingarelli diresse tre film di persona: il western Un esercito di 5 uomini, sua prima collaborazione con Bud Spencer, che si ritrovò a dover completare (con l’aiuto, a quanto pare, dello sceneggiatore Dario Argento) dopo la defezione del regista Don Taylor, il già citato Una prostituta al servizio del pubblico ed in regola con le leggi dello Stato e Io sto con gli ippopotami, uno dei tardi film della coppia Spencer-Hill. Eppure, quello che Lui era Trinità ci suggerisce è che Zingarelli fosse uno che respirava cinema, che lo conosceva intimamente e che, per lui, passare dietro la macchina da presa fosse solo un passo in più.
È un discorso interessante, perché, ancora una volta, racconta un cinema artigianale, in cui l’arte si imparava sul campo, facendo la comparsa, il direttore di produzione, guardando lavorare gli altri, e non alle accademie. Sia chiaro, non è che una cosa escluda l’altra, sono entrambe strade valide per arrivare agli stessi obbiettivi. Eppure, non si può non guardare con affetto a quell’epoca spericolata e istintiva, a volte anche troppo per il suo bene, che Italo Zingarelli incarna alla perfezione. Lui, che per troppo amore della vita finì per vivere meno di quanto avrebbe potuto. Lui, che amava eccellere in tutto senza però perdere di vista il terreno, e non a caso scelse di passare l’ultima parte della sua vita tra le vigne del Chianti. Lui, che era Trinità.