Facciamo un salto indietro di trent’anni: quando Forrest Gump comincia a correre fino al termine della strada, poi fino ai confini della città, dell’Alabama e degli Stati Uniti, si ha l’impressione che inizi un film tutto nuovo. Lo ricordate? D’altra parte, quello di Robert Zemeckis è un mosaico cinematografico che abbraccia registri e generi diversi, come se fosse composto da tanti piccoli film che plasmano l’opera intera. Ebbene, uno di essi potrebbe essere L’imprevedibile viaggio di Harold Fry, dove i chilometri macinati sull’asfalto diventano il soggetto ideale per una storia indipendente, tutta focalizzata sull’esperienza del viaggio a piedi. Anzi, un vero e proprio pellegrinaggio: il titolo originale del film di Hettie Macdonald, non a caso, è The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry, come l’omonimo romanzo di Rachel Joyce.
La ragione che spinge il pensionato Harold Fry (Jim Broadbent) a mettersi in cammino è una lettera d’addio dell’amica Queenie Hennessy (Linda Bassett), ricoverata a Berwick-upon-Tweed per un cancro in fase terminale. Harold inizialmente vuole soltanto spedirle una lettera, ma l’incontro con la cassiera di una stazione di servizio lo ispira a partire a piedi: è convinto che, finché lui camminerà, Queenie resterà in vita ad aspettarlo. Kingsbridge, la città di Harold, dista però 800 chilometri da Berwick-upon-Tweed. Il suo pellegrinaggio diventa ben presto un caso mediatico di portata nazionale, mentre la sconcertata moglie Maureen (Penelope Wilton) spera solo che il marito torni a casa.
Le gesta di Harold sono guidate da un motivo specifico, ma il film è abile a tenerlo nascosto: la sceneggiatura della stessa Rachel Joyce, infatti, rivela solo per gradi i retroscena della storia, conducendola progressivamente dalla commedia verso il dramma. Se all’inizio Macdonald valorizza la lieve ironia di una vicenda paradossale, in seguito l’umorismo viene messo sempre più da parte, sostituito dagli spettri di un tragico passato. Il cinema inglese ci sguazza in questa alternanza di toni (avete presente Philomena?), ma L’imprevedibile viaggio di Harold Fry lavora sul melò per scaldare il cuore, senza mai nascondere il suo intento catartico. Per certi versi, è anche il suo limite: in alcuni passaggi, Macdonald e Joyce giocano a carte fin troppo scoperte nel suscitare la commozione del pubblico, e il confine tra sincerità e manipolazione emotiva diventa molto sottile. L’estetica dei flashback, con la luce sparata sui protagonisti e l’uso della musica al posto dei dialoghi, è l’emblema di un approccio molto calcolato.
L’evoluzione un po’ inverosimile della storia non è certo d’aiuto, in tal senso, anche se il film non ha pretese di realismo; quello di Harold è quasi un pellegrinaggio da fiaba, improbabile sotto ogni punto di vista. In compenso, la raffinatissima performance di Jim Broadbent rende credibile ogni reazione del personaggio, dall’aplomb con cui si avvicina agli estranei alla disperazione per i traumi familiari, come pure il suo straniamento di fronte alla varietà del mondo. È qui che L’imprevedibile viaggio di Harold Fry dà il meglio di sé: Harold incontra diversi estranei durante il suo viaggio, e viene toccato a fondo dalle loro storie, componendo così una sinfonia umana di notevole delicatezza. È la manifestazione concreta di un’idea molto diffusa, forse utopistica ma rassicurante, secondo cui siamo tutti collegati gli uni agli altri, come si vede bene nell’epilogo. Scegliendo di spostarsi con lentezza, e abbandonando i suoi beni materiali lungo il cammino, Harold mette in connessione luoghi e persone differenti, ricordandoci che i rapporti umani richiedono tempo, attenzione, cura.
Intendiamoci, siamo lontanissimi dai vertici lirici e contemplativi di Una storia vera (evocato da una parte della critica per le assonanze del soggetto), anche perché L’imprevedibile viaggio di Harold Fry è chiaramente un film costruito ad arte, con un copione sigillato e intenti ben precisi. Ciononostante, se si accettano le regole del gioco, non è difficile lasciarsi coinvolgere.