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L’esorcista: Il credente, recensione del film di David Gordon Green

Pubblicato il 05 ottobre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Il culto del franchise non impone soltanto di trasformare ogni film in una saga, ma anche di resuscitarne alcune che si credevano morte e sepolte da decenni. L’ultimo capitolo de L’esorcista risaliva al doppio prequel del 2004 (quando il film di Paul Schrader spaventò la produzione, che arruolò il più commerciale Renny Harlin per rifarlo da zero), e Blumhouse ha deciso di esumare la saga con l’operazione più ovvia, soprattutto di questi tempi: L’esorcista: Il credente è infatti un classico legacy sequel, come i recenti Halloween dello stesso David Gordon Green. Ciò significa che i sequel di John Boorman e William Peter Blatty – autore del romanzo da cui è tratto l’originale di William Friedkin – non esistono nella timeline del film di Green, o quantomeno vengono ignorati, come pure la serie tv di Jeremy Slater.

Torna quindi la Chris MacNeil di Ellen Burstyn a legittimare questo nuovo capitolo, ma il resto del cast è tutto nuovo. Il fotografo Victor Fielding (Leslie Odom Jr.) ha perso la moglie Sorenne (Tracey Graves) nel terremoto di Haiti del 2010, ma la figlia che portava in grembo è stata salvata. Tredici anni dopo, Angela (Lidya Jewett) vive da sola con il padre a Tracy, in Georgia, e cerca tracce della madre defunta tra i suoi vestiti. La ritrosia di Victor a parlare della moglie spinge Angela ad allontanarsi con l’amica Katherine (Olivia Marcum) per fare una seduta spiritica in mezzo ai boschi, dove tentano di evocare lo spirito della madre. Le due scompaiono nel nulla, e vengono ritrovate in un fienile solo tre giorni dopo, ignare che sia passato tutto quel tempo. Ben presto, entrambe cominciano a manifestare i sintomi di una possessione demoniaca, e persino uno scettico come Victor è costretto ad accettare che l’intervento psichiatrico non basti. Dopo aver chiesto la consulenza di Chris, autrice di un libro che racconta la possessione di sua figlia Regan (Linda Blair), attorno a lui si forma un gruppo di amici e parenti determinato a salvare le ragazzine.

È proprio tale gruppo a segnare la principale differenza tra L’esorcista: Il credente e il capolavoro di Friedkin. David Gordon Green non ambisce a rifare il suo illustre predecessore, ma ne desatura gli elementi principali per calarli in un contesto più quotidiano, e più in linea con le sue radici indie: invece di cercare l’immagine memorabile a tutti i costi (impresa davvero ardua con un simile precedente), Green opta per un naturalismo quasi intimista, dove il montaggio frammentario di Tim Alverson – cui contribuisce l’ottimo montaggio sonoro supervisionato da Rich Bologna – si rivela molto evocativo nel connettere le singole scene. La prima metà del film è tutta giocata su questa tensione crescente, e funziona bene soprattutto per ciò che lascia intendere (o presagire) senza mostrarlo.

Il punto è che i legacy sequel sono una forma elevata di fan fiction, per quanto legittimata dall’alto: da Star Wars a Terminator, da Ghostbusters allo stesso Halloween, tutte queste saghe sono passate dalle mani dei loro autori a quelle dei fan, ovvero sceneggiatori e registi cresciuti proprio con quei franchise. Per L’esorcista: Il credente vale il medesimo discorso, e Green – da bravo appassionato – si sforza di individuare una via di mezzo fra tradizione e innovazione. È ovvio che il film debba culminare in un esorcismo, ma cambiano (almeno in parte) le modalità e il punto di vista con cui affrontarlo. La sceneggiatura di Green e Peter Sattler, a partire da un soggetto scritto con Scott Teems e Danny McBride, riconosce la sfiducia nelle istituzioni – anche religiose – che caratterizza il nostro presente, e la loro sostanziale demistificazione agli occhi delle persone: di conseguenza, l’esorcismo stesso è praticato in gran parte da laici, all’interno di un gruppo eterogeneo che rispecchia il sincretismo di fedi diverse. Senza dimenticare che stavolta vi assistono uomini e donne, quindi non è più una questione patriarcale, come sostiene amaramente Chris MacNeil quando spiega perché non abbia partecipato all’esorcismo della figlia.

Il rito è avvincente, e ci ricorda che il diavolo è prima di tutto un ingannatore. Green costruisce un epilogo sensato (anche in rapporto alla presenza di due ragazzine), per quanto le consuete logiche seriali impongano di realizzare un’intera trilogia. Si vede che il regista ha dovuto mediare tra la sua visione personale (molto forte nella prima metà) e le esigenze di una produzione Blumhouse, punteggiata da jump scare e apparizioni improvvise. Il film, comunque, centra almeno due notevoli scene orrorifiche, e si accosta al capolavoro di Friedkin senza presunzione, limitandosi ad accennare una riflessione totalizzante – e per certi versi antropologica – sul significato della fede. Le idee non sono sempre chiarissime, ma un certo fascino ipnotico non gli manca.