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La caduta della casa degli Usher, recensione della serie di Mike Flanagan

Pubblicato il 11 ottobre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Il senso di Mike Flanagan per l’orrore funziona meglio sul piccolo schermo che al cinema, ormai è appurato. Certo, film come Oculus o Il gioco di Gerald meritano la giusta considerazione, ma non sono paragonabili ai bellissimi The Haunting of Hill House e Midnight Mass, due capolavori che hanno segnato la storia dell’horror televisivo. In effetti, per Flanagan il raccapricciante nasce sempre dai traumi del passato, e il racconto seriale gli permette di sviluppare un retroscena ricco di sfumature, dipanandolo per gradi nel corso della narrazione: non è un caso che le sue miniserie siano spesso giocate sull’alternanza tra diversi piani temporali, sparsi come tessere di un mosaico da ricomporre un pezzo alla volta. Solo così il regista americano riesce a valorizzare fino in fondo la sua rilettura del genere horror, ambiziosa perché fondamentalmente esistenziale, quindi intima e universale al tempo stesso.

La caduta della casa degli Usher non fa differenza, anche se Flanagan cambia l’approccio sui personaggi, e stravolge il nostro rapporto con essi: laddove Hill House, Bly Manor e Midnight Mass innescavano una dolorosa empatia con i protagonisti, La caduta della casa degli Usher rovescia invece tale percezione, stimolandoci a simpatizzare con la forza oscura che dà loro la caccia. In effetti, i membri della famiglia Usher sono insopportabili fin dall’inizio, quando la serie ci introduce nelle loro vite. Il patriarca è Roderick Usher (Bruce Greenwood), CEO della Fortunato Pharmaceuticals, potente società farmaceutica che l’anziano Roderick guida insieme alla sorella Madeline (Mary McDonnell). Di provenienza umile, i due hanno scalato le gerarchie della Fortunato in modo poco chiaro, ma sono riusciti a farla diventare una delle aziende più importanti del settore.

La loro storia viene raccontata da Roderick al procuratore distrettuale Auguste Dupin (Carl Lumbly) nella vecchia casa in cui è cresciuto con Madeline. I sei figli dell’uomo – avuti da cinque madri diverse – sono morti nell’arco di pochi giorni, e la Fortunato è sull’orlo del disastro: le autorità hanno infatti scoperto che l’antidolorifico noto come Licodone, prodotto di punta dell’azienda, provoca una forte dipendenza, e molti suoi consumatori sono morti di overdose. La Fortunato ne era consapevole ma l’ha sempre tenuto nascosto, proprio come ha fatto realmente la famiglia Sackler con l’OxyContin, uno degli scandali più clamorosi degli ultimi anni in ambito medico. Se avete visto Tutta la bellezza e il dolore, documentario di Laura Poitras vincitore del Leone d’Oro a Venezia nel 2022, sapete a cosa mi riferisco: La caduta della casa degli Usher prende ispirazione dalla crisi degli oppioidi negli Stati Uniti, cui si ritiene abbia contribuito proprio la Purdue Pharma dei Sackler. In un contesto simile, Roderick ripercorre le strane morti dei suoi figli, tutte legate dalla presenza di una misteriosa donna chiamata Verna (Carla Gugino).

Come nel caso di Bly Manor e Hill House, Mike Flanagan espande l’omonima fonte letteraria per farne un contenitore di altri adattamenti, intessendo una narrazione composita ma dotata di coerenza interna. Il celebre racconto di Edgar Allan Poe è una cornice che racchiude le opere dello scrittore americano, e infatti ogni episodio ricava il titolo da una sua storia o poesia: La maschera della morte rossa, I delitti della Rue Morgue, Il cuore rivelatore e altri racconti forniscono gli elementi di base non solo per la trama, ma per i truculenti decessi degli Usher, mentre i nomi dei personaggi – come il sopracitato Auguste Dupin o l’Arthur Pym di Mark Hamill – si rifanno sempre agli eroi di Poe. D’altro canto, poesie come Il corvo, Annabel Lee (nome della prima moglie di Roderick) e La città nel mare offrono i loro versi alle dolenti riflessioni dei personaggi, che li citano come propri.

La caduta della casa degli Usher rielabora quindi l’intero immaginario di Edgar Allan Poe nella nostra coscienza collettiva, lavorando su quei riferimenti che ci verrebbero naturali nella vita quotidiana, soprattutto per un lettore appassionato. Flanagan ha fatto qualcosa di simile nei sopracitati Hill House e Bly Manor, ma la differenza è che Shirley Jackson e Henry James (per quanto fondamentali nella letteratura anglofona) non godono della stessa popolarità di Poe, e le loro opere non sono altrettanto pervasive: basti pensare che Il corvo è stato trasposto persino da I Simpson in un memorabile segmento di Halloween, a riprova della sua fama nell’immaginario condiviso. La serie diviene allora un sunto dell’universo poeiano, riletto alla luce di una memoria comune che tende a ricordare i frammenti, le scene madri, gli ingredienti principali di una storia.

In tal senso, Flanagan e i suoi autori (tra cui il co-regista Michael Fimognari) asciugano i racconti di Poe fino alla sostanza basilare, e la adattano alle loro esigenze: ogni puntata non è la trasposizione pedissequa di un’opera, ma solo del suo cuore narrativo, talvolta del suo colpo di scena, applicato alle mortifere vicende degli Usher. È un approccio che favorisce la coralità, poiché le fonti sono molteplici ed eterogenee quanto i personaggi. I membri della famiglia sono abbastanza variegati da essere credibili, tutti odiosi a modo proprio, e talmente imbevuti di privilegio da dimenticare cosa sia la vita reale. Nei figli di Roderick possiamo riconoscere molti attori feticcio di Flanagan (T’Nia Miller, Henry Thomas, Samantha Sloyan, Rahul Kohli, Kate Siegel e Sauriyan Sapkota), che offrono tutti una performance di buon livello nel clima parossistico della serie; stesso discorso per l’altro talismano dell’autore, la trasformista Carla Gugino. Al contempo, la prova sfumata e malinconica di Bruce Greenwood potrebbe essere la migliore della sua carriera, e restituisce l’idea di un personaggio tutt’altro che monodimensionale, ma capace di riflettere su sé stesso e le sue azioni.

È comunque arduo non prendere le parti della forza sovrannaturale che miete gli Usher come spighe di grano, al punto che ogni loro decesso – tranne uno – suscita soddisfazioni perverse. Da quel punto di vista, La caduta della casa degli Usher non risparmia sugli effetti sanguinolenti, e nemmeno su qualche doveroso jump scare. Ciononostante, il punto della serie risiede altrove. Attraverso l’epopea di Roderick e Madeline, Flanagan rievoca quel patto col demonio che sta alla base del capitalismo, i cui ingranaggi devono essere regolarmente oliati dal sangue perché continuino a funzionare. All’inizio di tutto c’è sempre un peccato originale, e il regista – pur dichiarandosi ateo – non può certo dimenticare l’educazione cattolica della sua infanzia. Anche stavolta, insomma, ci troviamo di fronte a un horror che parla di noi, del mondo in cui viviamo e delle gabbie che ci siamo costruiti: il monologo di Madeline nell’ultima puntata non lascia spazio ad alcun dubbio. Bisogna pazientare un paio di episodi per entrare nel meccanismo (l’inizio della serie è spiazzante perché in medias res, e solo in seguito cominciamo e vedere il quadro generale), ma il coinvolgimento scatta già dall’epilogo del secondo, una volta comprese le regole del gioco. Ed è un gioco al massacro, ovviamente. Quella cui assistiamo non è solo la rovina di una famiglia, o il crollo di una lugubre magione inghiottita da una pozza nera, come nel racconto di Poe: la caduta degli Usher prefigura e simboleggia la fine di un intero sistema economico-sociale, che non può reggere sotto il peso dei suoi stessi peccati.