Cinema

Killers of the Flower Moon, Martin Scorsese e quel cinema fatto di cupidigia

Pubblicato il 15 ottobre 2023 di Giulio Zoppello

Killers of the Flower Moon, dal 19 ottobre al cinema, rappresenta l’ennesimo acuto di un autore unico nella storia della settima arte, di un regista che, dai fasti della New Hollywood, è stato capace di spingersi fino a questo XXI secolo, senza che la sua opera perdesse nulla della sua potenza, della sua attualità, della sua capacità di parlarci della società, non solo americana ma soprattutto americana. L’odissea delle morti tra gli indiani Osage è l’ennesimo capitolo di uno sguardo sulla cupidigia, sull’avidità, tratto distintivo di sostanzialmente tutta la cinematografia di Scorsese.

Un altro grande film sul volto reale della storia

Killers of the Flower Moon ci riporta all’ondata di omicidi che dalla fine del primo dopoguerra fino agli anni ’30, rese la riserva degli indiani Osage in Oklahoma (ricchissima di petrolio) una terra di delitti, cospirazioni, dietro le quali c’era William Hale, un magnate spietato e manipolatore. Avidità, ecco la parola d’ordine, ma è la stessa che poi Martin Scorsese ha cavalcato quasi sempre nella sua cinematografia, il tratto distintivo di gran parte dei suoi protagonisti. Simbolo della New Hollywood capace di portare il concetto di autorità cinematografica ad un livello successivo, Scorsese è sempre stato distante da una visione manichea delle cose, ma ha sempre avuto ben chiaro come l’America, terra degli uomini liberi e patria del coraggio, al di là della ricercatezza di una sacralità intrinseca anche nelle istituzioni, abbia sempre avuto un solo Dio: il denaro. Dire denaro vuol dire per forza di cose anche potere, ed è il potere, il totale controllo, il riconoscimento di esso che i suoi personaggi vogliono, desiderano, anelano. Lo vuole Hale come lo voleva anche Jake LaMotta, lo voleva su sua moglie e sulla sua vita, sull’alcool che ingurgitava, su quel ring dove il grande Sugar Ray Robinson nel giorno di San Valentino lo ridusse a polpette. Leonardo DiCaprio, qui irriconoscibile redneck misto di malvagità e stupidita, lo è stato in modo anche più monumentale in The Wolf of Wall Street. Il suo Jordan Belfort è uguale a quello che è stato Hale, così come tanti personaggi di Scorsese: un simbolo realistico e nauseante dell’american dream.

Uno sguardo dall’alto e dal basso sulla società

Scorsese ancora oggi è ricordato da molti come il regista della mafia. Con Casinò, Quei Bravi Ragazzi, The Departed, Gangs of New York, ci ha parlato di come l’America è nata nelle strade, tra le gang, ha sottolineato il suo retaggio razzista ed etnico, ma soprattutto la sua incapacità di connettersi al concetto di identità di classe. Connettendosi a Ridley Scott nel suo abbracciare Friedrich Nietzsche, egli crede nelle individualità, che però dal suo punto di vista non sono semplicemente un motore dell’azione, ma ne subiscono le conseguenze in tutto e per tutto. Il suo sguardo si è mosso dall’alto al basso. Taxi Driver, Mean Streets, Re per una notte, Il colore dei soldi, The Irishman, ci hanno guidato nei bassifondi, lì dove esistono i Fanti che sognano di essere cavalieri, la manovalanza dei feroci signori che hanno fatto grande l’America scrivendo nella storia con il sangue, le bugie, i soprusi. The Aviator, The Wolf of Wall Street lo stesso The Irishman, così come L’Età dell’Innocenza, ci hanno mostrato però anche lo sguardo dall’alto, dentro la giungla dei privilegiati fatta di coltellate, ipocrisia, di una cultura dell’accumulazione patologica. In Killers of the Flower Moon egli fa a pezzi il mito del West, della frontiera, dei pionieri. Scorsese è lo stesso che ha messo alla berlina la sacralità della famiglia e della religione, pilastri d’erba dietro cui si nasconde il vero volto di una comunità in cui non esiste lealtà, in cui i rapporti umani vengono formati e spezzati con la stessa tranquillità con cui si spara ad un complice o si tradisce la propria donna.

L’individualismo come unico credo eterno

Il cinema di Martin Scorsese si è sempre mosso seguendo linee sovente grottesche, distruggendo l’eroismo come tratto distintivo della narrazione americana. Se guardiamo con più attenzione, infatti, ci accorgiamo che Mikey Santoro, Tommy DeVito, Henry Hill, così come Aldo Rothstein, Trevis Bickle, Frank Costello o Howard Hughes, sono nella realtà figure tanto patetiche quanto inconsapevoli della loro stessa debolezza, della fragilità dei loro sogni. Essi cercano in tutti i modi di distinguersi dalla massa, ne sono separati per natura e finalità, ma alla fine sono comunque sempre strumenti dell’accumulazione di potere e denaro, personaggi dentro i quali si respira la storia del loro periodo e del loro momento. Essi ne manifestano senza ombra di dubbio un eccesso, ma è lo stesso eccesso di cui si nutre la società americana, che non sa fare altro che andare sempre mille all’ora, abbracciando una dimensione sociale tanto piramidale, quanto distante dal concetto di solidarietà collettiva. Se con The Aviator aveva fatto a pezzi l’eroismo imprenditoriale, con i suoi gangster movie distrutto l’eroismo che una certa parte del pubblico aveva voluto cucire addosso alla malavita, se con The Wolf of Wall Street aveva completamente spazzato via il mito yuppie, con Killers of the Flower Moon crea una verità, nel senso storico, antropologico, culturale. Eppure, Martin Scorsese non è un regista antiamericano, non potrebbe esserlo, in lui vi è sia ammirazione che odio per questa macchina infernale; egli si accontenta di essere un narratore, libero da ogni condizionamento, se non quello di dire così è stato, così è, così sarà sempre nel magnifico paese.